Regia di Giuseppe Tornatore vedi scheda film
Splendidamente inverosimile. Come le migliori opere d’arte. Giuseppe Tornatore omaggia, ancora una volta, il mito surreale dell’amore impossibile, della passione totale, del radicalismo dei sentimenti rivolgendo uno sguardo venerante alla nobiltà della finzione. Il genio si rivela soprattutto nell’inganno, nell’assolutismo applicato all’assurdità, nel sogno paradossale che cattura la mente e la domina come la più plateale delle evidenze. Il gioco dell’incanto, da facile che era – vedi le retoriche semplificazioni cui era stato sottoposto ne L’uomo delle stelle e in Malèna – è diventato un ingranaggio raffinato e complesso, in cui il falso supera il vero imponendosi con la sua smisurata capacità di affascinare e convincere. Lo sa bene Virgil Oldman, un maturo banditore d’asta di fama internazionale, abile nel vendere come nel comprare, diffidente fino al midollo, eppure estremamente sensibile alla magia del bello. Non ha mai saputo amare una donna in carne ed ossa, però, negli anni, ha messo insieme una straordinaria raccolta di ritratti femminili: quella collezione esclusiva e segreta è l’unica compagnia da cui, ogni tanto, si lascia confortare. La solitudine, per lui, è la logica conseguenza della presa d’atto che dietro ogni suo simile si cela un potenziale pericolo, che si chiami disonestà o infezione contagiosa. Virgil porta i guanti, copre la cornetta del telefono con un panno, non usa mai il cellulare. Si concede poco e malvolentieri, a meno che non si tratti di irrinunciabili impegni professionali. È un uomo che sembra nato unicamente per funzionare all’interno di un meccanismo che scopre tesori e produce ricchezza, sullo sfondo di un romanticismo materiale identificato col possesso delle cose più preziose ed ammirate. La distanza, che è il principale motore del desiderio, è l’intervallo temporale che lo separa dall’origine di quegli antichi arredi di cui è un viscerale cultore ed impareggiabile valutatore. Il passato è il luogo misterioso da cui provengono quei frammenti di vita vissuta a cui Virgil è chiamato a restituire un’anima ed un senso. Da quell’enigma si lascia docilmente conquistare, perché è una sfida che dona una nuova dimensione alla sua esistenza, tanto inadatta a riempire il presente, quanto disabituata ad protendersi verso il futuro. La sua missione è riportare alla luce gli oggetti sepolti. L’attimo viene lasciato fuggire, insignificante e sorpassato come un’offerta che venga subito annullata da un’altra di poco più alta. Solo quel che è stato merita di essere scrupolosamente conservato, studiato, e, se necessario, ricostruito. Poco importano la sua autenticità e la sua effettiva importanza. Il suo valore deriva dalla virginale integrità prodotta dalla definitiva conclusione di un ciclo vitale, dal completo distacco da un mondo che, su ciò che giace nascosto e dimenticato, non può più esercitare la sua azione giudicatrice e contaminante. Come una ragazza che non ha mai conosciuto l’amore, perché dall’infanzia vive rinchiusa nella sua camera, dentro una villa abbandonata. Essere vista da altri le provoca il panico. Per lei è inconcepibile uscire all’aperto, o anche solo affacciarsi ad una finestra. La forma di agorafobia di cui soffre presenta proprio quella innaturale perfezione a cui Virgil non sa resistere. Un artificio inspiegabile, eppure dotato di vita autonoma. Come quel leggendario robot meccanico del Settecento di cui ha ritrovato i pezzi, e che vorrebbe veder risorgere. Soltanto da un’eroica alchimia possono nascere la sorpresa, il cambiamento, la rivelazione. La rottura dell’ovvietà inizia con una contraffazione. Un’anomalia che non può restare senza conseguenze. E che, se ben architettata, è sempre potente, ed è buona o cattiva a seconda del livello della sua sincerità.
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