Regia di Rupert Julian, Erich von Stroheim vedi scheda film
Qualunque siano le radici delle sue origini (classe media o alta borghesia, non è mai stato appurato con sicurezza), è assodato che Erich von Stroheim provenisse dalla metropoli austriaca. “Vienna, con un codice morale proprio…”, come recitano le didascalie introduttive di “Merry-Go-Round”, bobina muta del 1923 che Stroheim stilò e di cui, inizialmente, ne fu il direttore, benché venne presto sostituito dal collega Rupert Julian (“Il fantasma dell’opera”); uno spaccato di una città travagliata ove l’autore ne traslava, poeticamente, il cordoglio interiore avvertito per la perdita del vecchio regime. Una traumatica rottura col passato che dissipò il tessuto di un'area urbana ora considerata “morta”, i cui sentimenti di gaiezza e vitalità erano indissolubilmente drenati via. Eppure, nonostante Stroheim voglia far trapelare dallo schermo il malessere europeo conseguente al conflitto mondiale, s'appoggia su una cifra stilistica più leggera, orientata alla feuilleton. Levità ravvisabile nel footage realizzato da lui, dove il registro era ancora barcollante nella presa di posizione, e tuttavia lasciava intuire la preparazione di una pellicola meno ambiziosa del solito (va precisato che Stroheim decideva il tono adatto quando girava, e non in fase di pre-produzione), il cui soggetto era incentrato sulla storia amorosa tra il rampollo della nobiltà Franz Maxmilian Von Hohenegg (Norman Kerry) e Agnes Urban (Mary Philbin), sfortunata figlia di un burattinaio circense in preda alle angherie del perfido giostraio Huber (l’imponente George Siegmann). L’intrallazzo è roba sciropposa alquanto ordinaria, fra colpi di fulmine, tragedie sul suolo bellico, stoiche traversie e scabre carognate: mentre la componente romantica è quella meno trascinante (può essere gradevole nelle parti che si concentrano sull’incontro di Maxmillian con Angnes; andando per le lunghe comunque l’affresco diventa esageratamente zuccheroso), è la caratterizzazione del cattivo di turno a impressionare. Un un sadico maniaco; brutale e privo di rimorso. Alcune sequenze erano inoltre abbastanza spinte per l’epoca, specialmente quelle che vedono l’aguzzino cercare di violentare Agnes. Qui si attinge a piene mani dall’espressionismo tedesco, attraverso dei primi piani costernanti e dei cambi d’inquadratura angusti, capaci di fomentare una tensione pressante. La macchina da presa, però, non trova una stabilità persistente della rappresentazione, e il disegno tende a perdersi in sproporzionati segmenti focalizzati su vezzosità e monotone deflagrazioni d’emotività. Il difetto più palese nondimeno rimane la riscrittura imposta dall’alto, la quale ha trasformato un ragguaglio introspettivo personale (e potenzialmente espandibile in sottotesti legati alla condizione logorante della società cui Stroheim apparteneva) in un romanzo languido, non sprovvisto di frammenti in grado di far scaldare gli animi (il tentato omicidio sotto gli occhi dei bambini del povero clown in esibizione), ma globalmente tiepido nella sostanza.
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