Regia di Giulio Manfredonia vedi scheda film
E alla fine della proiezione sale un’amara malinconia. La stessa del Gallo Cedrone verdoniano: con chi è così avanti da raccontare il presente non ridi, quasi ti rifiuti di (ri)conoscere la verità. Quell’arrogante cialtrone di Feroci voleva cementare il Tevere, il Cetto di Albanese, si sa, sogna un ponte di “pilu” sullo Stretto. Ecco, il sequel di Qualunquemente si fa in tre, con quel politico laido, il mitico Frengo e il razzistissimo Rodolfo Favaretto, Albanese ci mostra una classe dirigente che ha un look tra il massone e il romano imperiale con un geniale Bentivoglio, sottosegretario che parla come Dell’Utri e veste e si pettina come Karl Lagerfeld. Il punto, però, è che per quanto gli attori siano bravi, le scene ben girate e non poche battute di livello, la pellicola paga due difetti. Uno di sua esclusiva competenza: il demagogo protoleghista è un personaggio sostanzialmente sbagliato, quasi mai efficace, lontano parente del mitico Perego. L’altro è fuori dalla responsabilità degli autori: i Fiorito e i Maruccio, le feste polveriniane e i conti di Lusi sono infinitamente più folli e indegni delle cialtronate pacchiane di questi pur ridicoli personaggi. Albanese e il suo regista Manfredonia qui pagano il fatto che, come nel primo capitolo, ciò che hanno anticipato nell’ideazione e nella scrittura diventa attuale, persino superato all’uscita del film. E si fa fatica allora a ridere del nostro squallore, si rimane quasi delusi.
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