Regia di Giulio Manfredonia vedi scheda film
Brutto brutto (non è) niente (non è) niente.
Cetto La Qualunque torna a infestare le sale, ma è un fallimento su tutta la linea. I difetti di Qualunquemente, che ebbe buoni riscontri al botteghino, sono qui amplificati, portati all’eccesso, ridotti in un certo qual modo a dettare la (misera) “poetica” del film.
In verità, non c’è molto da dire, da valutare, da giudicare. Semplicemente, si tratta di una farsa - che nulla ha a che spartire con il cinema - lunga un’ora e mezzo. Decisamente troppo. Di divertirsi, anche in modo stupido o ignorante, non ce n’è verso: vengono riproposte scenette già note, stancamente, senza inventiva, ritmo, fluidità, senso. Senso che certo non si può cercare né nella sceneggiatura (se così si può chiamarla ... no: non si può) né nella regia (non pervenuta).
Antonio Albanese, di cui qua non si discute del talento comico e delle capacità attoriali (altrove mostrate), si moltiplica e veste i panni di tre personaggi: oltre a Cetto, il pugliese incallito fumatore d’erba Frengo (direttamente dal glorioso passato remoto di Mai dire gol) e il veneto leghistoide Rodolfo Villaretto. L’unico di questi ad essere minimante vagamente interessante è La Qualunque, mentre gli altri due sono macchiette all’ennesima potenza (televisiva) sviluppati malamente, denotando sia confusione che approssimazione. A conti fatti sono meramente riempitivi, in quanto evidentemente con Cetto si erano già esaurite tutte le cartucce.
I bersagli - le istituzioni politiche, ecclesiastiche, la società e i suoi valori - sono facili facili, ma questi sono tempi in cui non passa minuto senza che gli stessi siano continuamente sputtanati da ogni genere di atrocità. Sicché il rischio - che più che concreto è una certezza assoluta - è che tra l’ideazione, la realizzazione e la presentazione del “prodotto” film(etto) la realtà abbia già abbondantemente e con grandi sganasciate superato qualsiasi approccio satirico, critico, umoristico.
Questo gli “autori” lo sanno (ché gli “autori” veri della odierne bestialità tragicomiche sono quelli che occupano i posti di potere); allora che fare? Semplice: la si butta sul grottesco, sul surreale (ambientazioni, capigliature, costumi, accessori e quant’altro), pensando così di poter raggiungere magari modelli naif o vagamente poetici, intellettuali.
Cazzu cazzu fallisce l’obiettivo e, mesto mesto maldestro maldestro, si riduce il tutto ad uno stato primitivo, “primordiale”: la barzelletta. Che, peraltro, oltre ad essere francamente sterile è pure appesantita da scarsa inventiva ed attitudine. Due-tre momenti accettabili non salvano il film dalla monotematica dimensione caricaturale in si muovono beati e beoti questi fantocci di cartapesta colorata e puzzolente (ancora: quelli veri puzzano talmente tanto che viviamo in un clima fetido a cielo aperto. E non c’è niente da ridere. Non più).
Nella infelice girandola (che gira a vuoto) ci si perde pure un Fabrizio Bentivoglio “alticcio” e fuori posto, con postura ingessata e pettinatura ingellata, mentre l’ectoplasmatico Paolo Villaggio cerca tristemente e goffamente di dare un significato alla sua incomprensibile presenza (da villaggio vacanze).
Se è pur vero che nell’ampio panorama italico delle commedie d’ogni (sotto)specie e sorta, vi è ben di peggio, in definitiva non si può che constatare come Tutto tutto niente niente sia un film inutile e inconcludente.
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