Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film
1972; Antonioni viene ufficialmente invitato dal governo cinese a girare un documentario che rappresenti quel lontano, affascinante, immenso, antico Paese. Il regista italiano - in quel periodo attratto dalla possibilità di esplorare il mondo con la macchina da presa, dopo essere stato in Inghilterra per Blow up (1966), negli Usa per Zabriskie point (1970) e con in mente già il successivo Professione: reporter (1975), per lunga parte ambientato in Africa - accetta. E il suo sguardo, molto più attento all'animo (umano) che all'anima (trascendentale) si getta fin da subito sulle persone: non è infatti un caso che il film si apra sulla sconfinata piazza Tienanmen, dalle dimensioni irragionevoli, tanto larga da poter scorgerne a malapena la fine. Qui brulicano personaggi di ogni tipo, ma tutti bene o male uniformati a uno standard di vita povero ma non miserrimo, come sottolinea immediatamente il commento del giornalista Andrea Barbato (comunista e già corrispondente dall'estremo oriente, quindi persona gradita al governo cinese); per le successive tre ore e mezza la macchina da presa non si scollerà dai comportamenti, dagli assembramenti, dalle mirabolanti creazioni umane (strutture come la Muraglia cinese o il monumentale ponte sul Fiume azzurro), analizzando gesti e abitudini, volti e corpi. La Cina come un Paese umano: difficile da digerire per la diffidente politica italiana (all'epoca monopolio della Dc), perfino insultorio come concetto per la sinistra nostrana, che mitizzava la figura di Mao, in quel momento ancora vivo e al potere, e infine 'calunnioso' (il film venne definito proprio così) a sentire Mao in persona: ecco perchè il documentario di Antonioni sparì dalla circolazione immediatamente. Grave, gravissimo danno, poichè recuperarlo trent'anni dopo ha significato lasciare invecchiare e deteriorare per troppo tempo la pellicola: la copia digitalizzata edita da Feltrinelli nel 2007 lo fa presente, giustificando così le imperfezioni del filmato. Particolare è inoltre la maniera in cui Antonioni osserva le giovanissime generazioni; l'età media dei cinesi - si dice a un certo punto - era a quei tempi attorno ai venti anni e il regista insiste spesso nel descrivere (e a ragione, chiaramente) la Cina come un Paese di bambini - e non tanto dei bambini -, cioè fortemente popolato di infanti già perfettamente disciplinati e inseriti fin quasi da subito nella vita 'pubblica': immensi asili, reparti delle fabbriche dedicati ai piccoli, una fortissima attenzione dedicata dallo Stato alla crescita dei pargoli in linea con il pensiero e la morale maoista. Tutto questo si deduce facilmente, ma Antonioni non ha alcun interesse a criticare o a mostrare difetti, se non come parte integrante, insieme ai pregi, di una società tanto differente dalla sua (nostra) e al contempo tanto ricca di mistero e attrattiva. La fotografia è di Luciano Tovoli, che seguirà il regista anche in Professione: reporter; la colonna sonora è curata da Luciano Berio, con frequente ricorso a musiche locali. 7/10.
La Cina, Paese immenso e misterioso, chiuso in sé, ricco di tradizione e di fascino, visto attraverso la sguardo di due europei: uno dei massimi registi di sempre, Antonioni, e un giornalista di sinistra già corrispondente dall'Estremo Oriente, Andrea Barbato.
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