Regia di Terrence Malick vedi scheda film
Spiace dirlo ma To the wonder è un film che si avvicina al pessimo. E mai avrei immaginato di scrivere queste parole per un autore che ha regalato cose come Badlands, La sottile linea rossa o The tree of life. Quest’ultimo in un certo senso è il gemello fortunato del pastrocchio To the wonder. Il tentativo di trasformare le immagini in poesia, perfettamente riuscito nel film vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2011 si arena in una trita ridondanza di stile e stilemi. La differenza che passa tra la poesia e le rime melense dei fogliettini dei cioccolatini sta nei particolari. Il cioccolatino, per esempio, è il particolare che unito a stornelli in rima baciata lenisce la mancanza d’arte delle frasette ad uso di innamoramenti standard. Quello che si vede in To the wonder è materiale per un videoclip di cinque minuti idealmente montato su una qualche canzone neomelodica di amori adolescenziali ricchi di stereotipi e romanticume. Pose liquide, sguardi persi in un altroquando melenso, frasi cacciate a caso in una asincronia di montaggio fastidiosa e per nulla giustificata dalla storia. Che non c’è, per inteso. Ma questo non è il peccato. Il peccato è sublimare una non- storia in un montato senza senso , diluendola per un tempo infinito e sperare di farla franca. Malick gira come sempre molto bene – su questo v’è certezza - con la camera mobile che accarezza i corpi, scivola e s’impenna, sempre immersa in una curatissima fotografia luminosa, pronta a cogliere l’aura dei soggetti cercandone, invano, l’anima . Coglie sguardi al volo come un testimone invisibile, ectoplasmatico, dell’amore tra Neil (Ben Affleck) e Marina (Olga Kurylenko). Essi stessi , nel loro amore, testimoni della meraviglia del creato e dell’esistenza di Dio come motore dell’esistenza stessa.
Uh ! Leggerezza leggerezza che si fugge tuttavia, della sceneggiatura non v’è certezza. Tra alti e bassi, l’amore va, l’amore torna. Un trionfo di caricature d’amore che mimano il candore, plastica delle forme che replicano il dolore delle perdita, sciabordii di acqua e frulli di steli d’erba. Le Mont-Saint-Michel sfondo di un teatrino di carinerie da Mon Chéri. L’ incarto, una colonna sonora stucchevole, invasiva e anch’essa ridondante. L’incanto, nullo.
Nel tempo il regista si è astratto sempre di più da una forma narrativa convenzionale abbracciando però una deriva mistica di cui The tree of life era il limite massimo, l’equilibrio più riuscito tra l’esperimento antinarrativo e l’aleggiare sensoriale delle immagini creando un piccolo capolavoro. Oltretutto Jessica Chastain e Brad Pitt, bravissimi, avevano un ruolo e una scrittura dei personaggi più definita unitamente ad un’intensità recitativa che andava ben oltre lo spaesato sbigottimento dell’omologa coppia Affleck/ Kurylenko, scaricati senza colpa , mi vien da dire, in un limbo cinematografico indefinito.
Non basta quindi la regia di Malick, quando ad essere assente è tutto il resto. Privo di un’idea forte , di un senso narrativo di impatto, ogni virtuosismo si perde nello sterile manierismo dell’autore più di nome che di fatto. To the wonder: Alla Meraviglia, dice il traduttore automatico di Google, qualcosa che dovrebbe aleggiare nello spazio facendosi tutto, senza essere nulla. To the wonder alla meraviglia sostituisce tutta la pesantezza del nome del suo creatore e rimane a terra a contemplare di sé, ogni difetto.
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