Regia di Francesca Comencini vedi scheda film
Roma. Lo spazio di un giorno, un segmento di vita ordinaria che potrebbe essere uguale a sé e identico a mille altre giornate, ma che si scoprirà speciale suo malgrado. Due gioventù lontane ma vicinissime, con molti buoni propositi da rimpinguare a forza di belle promesse e speranze tutt’al più abbozzabili. Sogni vanesi, che amano specchiarsi in acque inconsistenti ma sono refrattari al materializzarsi per davvero. Gina e Marco s’incontrano e si scontrano, come spesso accade nelle grosse città , per puro caso. Lei alla ricerca di un incontro importante che possa far da svolta, lui autista-accompagnatore tutto in tiro al suo primo giorno di lavoro. Esigenze che coincidono e caratteri che confliggono, a loro modo si trovano, forse si innamorano. Per poi perdersi di nuovo, come tanti altri prima e dopo di loro, e ritrovarsi forse in un ultimo, urlato tentativo di instaurare una comunicazione, un contatto.
Coppia fugace e dal destino frettoloso quanto le ventiquattro ore più volatili che si possano immaginare , i protagonisti di “Un giorno speciale”, l’ultimo film di Francesca Comencini presentato in concorso all’ultimo festival di Venezia, vivono il loro personale road movie sentimentale in un arco di tempo limitatissimo, troppo bello e spontaneo per essere vero e assai vicino all’irrealtà di un raggio di sole fuori dal tempo. Novelli Julie Delpy e Ethan Hawke, anche se dalla vocazione meno esistenzialista e più legata al pragmatismo italico e arrivista dei nostri tempi, questi due “post-adolescenti avanzati” interpretati da Giulia Valentini (esordio molto acerbo ma viso affascinante) e Filippo Scicchitano (alle prese qualche umore più sottile e verdoniano dopo l’exploit di “Scialla!”) avrebbero anche una discreta alchimia sullo schermo e la loro intesa non sarebbe neanche tanto male, perfino nei momenti umoristici. Il lato prettamente romantico della storia, sullo sfondo di una Roma onnipresente e fortemente ambient che assurge prepotentemente a personaggio in più di un’occasione, non a caso è quello che funziona meglio, il pedinamento sui loro volti ravvicinati e sui loro nasi insicuri intenti a sfiorarsi nei pressi di alcune rovine storiche la cosa più bella del film.
Peccato però che la Comencini, adattando il romanzo “Il cielo con un dito” di Claudio Bigagli, li tiri dentro un’operetta morale di grana grossa che malamente e con modalità anche abbastanza grossolane va rilevando pian piano il suo subdolo impianto “a tesi”. Ancora. Tornando sul “luogo del delitto” (che in questo caso corrisponde al più che discreto “Mi piace lavorare (Mobbing)”), la più valida delle sorelle figlie di Luigi Comencini dimentica un film docile e raffinatissimo come “Lo spazio bianco” e insiste nuovamente sul raccontino esile esile del contemporaneo nostrano. Col sottotitolo lampeggiante “In Italia si sta male”, con la pretesa prepotente e sbandierata senza troppa grazia di un racconto sociale a due voci che parli di un paese lasciandolo volutamente sullo sfondo, facendolo emergere di traverso tra allusioni e sottecchi. Un manierismo di stile evidentemente pretenzioso, che in pochissimi casi lascia scampo.
E infatti il film mette ben volentieri da parte l’amaro gusto sentimentale della storia confinandolo in un cantuccio e lascia il posto troppo e troppo spesso a didascaliche spennellate, a quadretti per brevità (e senso dell’insieme) chiamati berlusconiani: il prete che raccomanda, la madre premurosa che spera che la figlia faccia carriera tutta impellicciata e ingioiellata, il giovane autista che “la scuola non serve più a nulla” (figuriamoci se è utile per comprarsi un rolex allora), gli onorevoli che si lasciano blandire sessualmente e ai quali non importa assolutamente nulla del loro oggetto del desiderio di turno. A molti il riferimento politico all’attualità è parso circoscritto e circoscrivibile, ma in realtà è supponente, facilone, qualunquista. Troppo sciatto e irritante provare a raffigurare l’Italia presente così. Troppo. Disonorevole al sommo grado.
Abbattendo così buona parte del suo potenziale e stereotipandosi scena dopo scena anche nel situazionismo che propone allo spettatore, “Un giorno speciale” getta alle ortiche i pregi virtuali che lasciava intravedere comunque molto pallidamente e vanifica ogni prospettiva di pur vaga originalità. In fondo, aveva tutte le carte in regola per essere anch’esso un film sullo sbandamento metafisico della (post)modernità, per citare, parafrasando, quel che ha detto Servillo di un altro film in concorso a Venezia e in cui era protagonista, “E’ stato il figlio”. Invece, pur mettendo in scena due normali giovani odierni sfruttati e mercificati a loro insaputa, finisce con l’imporsi con chiassosa volgarità quale tamarrissimo “Cosmopolis” all’amatriciana, come suggerisce tra le righe la stessa Comencini con un paragone da irrisorio scult istantaneo.
E’ vero, la sfasatura di due esistenze insicure e deragliate passa anche qui per una limousine e si specchia nei suoi finestrini più o meno appannati, ma la superficie riflettente più rilevante nell’Italia berlusconizzata che “Un giorno speciale” tenta di delineare in modo pasticciato è la tv. E allora eccola che ricorre, nella livida ma mai spietata fotografia di Luca Bigazzi a incorniciare il tutto, presenza fissa e sempre accesa ad aprire le danze e far calare il sipario. Che rabbonisce e intrattiene, soggiogando nella maniera più occultata possibile. Inizio e fine di tutto, circoscrizione inevitabile di un immaginario.
Fateci caso: il cinema italiano di oggi, indistintamente e a prescindere dai propositi e dalla qualità, racconta l’Italia spesso e volentieri attraverso delle tv accese: da “Nessuno più giudicare” a “Bella Addormentata” , il piccolo schermo non si schioda e commenta le vicende del Belpaese in maniera più o meno contemplativa e impersonale. Occhio vigile e mesto. Non un caso. Forse, solo una tragica fatalità.
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