Regia di Francesca Comencini vedi scheda film
“Un giorno speciale” (2012) è l’ottavo lungometraggio di Francesca Comencini.
Rischia molto la regista romana con questa pellicola di incontri furtivi e di un incontro casuale che corre lungo tutto il binario dell’improvvisazione fino ad essere deviato e inglobato nella città e nella sua storia. Il quadro ancestrale dei fori imperiali limita e inganna lo spettatore di fronte ad un bacio che non si vede e un lungo campo che sposta il destino e i fatti così per caso. “Pensa che una volta qui si giocava a pallone” dice Marco a Gina mentre entrano furtivamente nella gloria della città antica. Pensare quando la città era un’altra e il gradasso capitolino lambiva e coesisteva con una città invasiva ma non invasa dall’ultramoderno. Un gioco di contrapposizioni e di livori che si inteneriscono e spariscono in questo girovagare tra turisti soverchianti il culto e silenzi impossibili da percepire.
Una mattina come tante la madre di Gina (una figlia diciannovenne) prepara per bene e dà gli ultimi ritocchi al vestito da indossare per la sua giovane donna. Deve andare ad un incontro importante. Di lì passa un Mercedes nuovissima guidata da Marco (giovanissimo autista) che proprio la ragazza deve prendere per portarla a destinazione. I due non si conoscono (naturalmente) ma cominciano ad incrociarsi (con lo specchietto di guida), a punzecchiarsi, a scambiarsi parole in libertà fino ad un certo tipo di conoscenza. Il giorno per i due è molto particolare: Marco è al primo giorno di lavoro e si imbatte nella ‘bellezza’ di Gina che a sua volta ha un appuntamento ‘di lavoro’ con l’onorevole di turno (amico di famiglia) per introdurla nel mondo dello spettacolo.
Un film diseguale e a stratificazione d’intenti che pone giusti dislocamenti ambientali (la periferia lontana, le strade in contropendenza, l’incontro con un gregge, i raccordi stradali, le luci di una galleria, un ristorante chic e abitazioni acco-a-lorate) in una narrazione che vuole (sembra) inseguire. Nel mondo attorno ai due (‘pedante-languida’ coppia) fuoriesce un senso di antico (e già dato al cinema) come presa visione dei gusti filmici dello spettatore e di Marco-Gina che in un tutt’uno simbiotico si ritagliano un primo-piano di scherzi lontani da loro e un fuori-posto in contenitori di cartone. La corsa fuga dopo un prelievo di un vestito (di cinquemila euro) dalla vicina Trinità dei Monti è un gesto liberatorio (certamente) ma appare più rincorrere una macchina da presa che pare avere qualche incertezza. E sì il mondo ‘dorato’ delle vie, viuzze, chiese e bellezze (seppur ben inquadrate) distorcono e lasciano indietro certi tratti leggeri e sagaci di un oltre il raccordo che potevano dare ancora più spessore alla vita (in)certa dei due giovani. Quando l’epilogo arriva e l’incontro con l’onorevole è alle porte (dopo più rinvii per gli impegni sovrabbondanti comunicati all’autista) il film perde freschezza e quella medietà di certo cinema ‘sincero e composto’: bastano trenta secondi di troppo dentro una stanza (inutile e forviante) a eliminare ogni immaginazione risaputa e qualsiasi sogno (in-verosimile) per una sfida che può essere nascosta (e perduta). Gli ultimi istanti sono solo (un giusto) accontentare di ciò che non è avvenuto. Il grido e il chiamare Gina (da parte di Marco) sembra un segno dei tempi popolani e di scorribande giov(an)i(a)li quando la commedia era arte e il respiro una speranza (audace).
Le riprese alleggerite e non rituali, radenti e sinuose della regista danno al film un sapore di diversità e di servizio: un merito quello di porre un prodotto mai di scorta e facilmente deprecabile. Una sincerità di fondo che va riconosciuta alla Comencini (almeno per chi scrive). Si deve dire che la pellicola non ha creato fastidi oltre misura: certo la recitazione (non sempre fluida) risente di una scrittura che a volte (come già detto) sembra stare sulle sue come d’altronde i personaggi escono e rientrano nel gioco dei passaggi tra racconti personali e dintorni in bellezza. E’ da notare che il montaggio non crea sempre una fluidità in presa diretta degli avvenimenti: immaginare un percorso senza interruzione effettiva (quasi dislocando la giornata in momenti precisi ed orari canonici) poteva dare la sensazione di un doppio colpo cinematografico (documentarismo in una finzione reale odierna). In un paio di frangenti si ricordano inquadrature (la scena della pioggia quando Gina si sente male e Marco si ferma per portarla di peso fuori dall’auto) dislocate su momenti diversi (le auto parcheggiate scompaiono) e atmosfere cambiate.
Giulia Valentini (Gina), alla sua prima vera prova d’attrice, mantiene (comunque) sempre vivo il suo personaggio e Filippo Scicchitano (Marco), che aveva recitato in “Sciallà”, cerca continuamente di stare dentro, e insieme di ripagare scelta e fiducia della regista.
Voto: 6+.
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