Regia di Man Ray, Marcel Duchamp, Germaine Dulac, Luis Buñuel, Fernand Léger vedi scheda film
Un multiforme manifesto cinematografico di rottura della tradizione, di liberazione dell'arte dall'asservimento ai canoni narrativi ed etici della cultura ufficiale. Un interessante collage di avanguardia spinta, che apre la strada al cinema onirico e sperimentale dei giorni nostri, e in nulla cede alle esigenze dell'estetica di massa ed alle aspettative dell'immaginazione popolare. I vari segmenti dell'opera (sei cortometraggi ed un mediometraggio), tra cui spicca l'opera prima di Luis Buñuel, meritano, a causa della varietà dei rispettivi contenuti, di essere recensiti singolarmente.
Le rétour à la raison (3', Man Ray, 1923). La ragione è nitida e pronta all'uso solo quando è uno schematismo vuoto e anonimo, riproducibile ma immutabile; un contenitore utile a raccogliere e classificare, ed una struttura in grado di spiegare le forme nel loro essere di per sé. Una giostra non è un luogo di divertimento, bensì un girotondo di luci, un corpo di donna non è un'immagine sensuale, bensì un sistema tridimensionale di curve. Poco importa se tale interpretazione del reale è un meccanismo impersonale, incapace di dare respiro alle emozioni; è come una trottola che ruota su se stessa, compiendo giri sempre uguali, però questa, in fondo, non è che una versione moderna, dinamica ed automatica della contemplazione.
Emak Bakia (16', Man Ray, 1926). Il cinema come meditazione visiva, che si abbandona alla psichedelia delle forme in movimento; è questo un artistico gioco di contorni sfumati e di riflessi, in cui gli oggetti perdono la loro individualità predefinita, perché decontestualizzati e privati della loro funzione strumentale. Ciò corrisponde perfettamente all'estetica di Man Ray, pittore e fotografo del dettaglio e degli accostamenti inconsueti, delle angolazioni innaturali, insomma di tutti quegli accorgimenti ottici grazie ai quali lo sguardo acquista il potere di produrre, nella materia osservata, trasformazioni magiche ed inedite. E' così che le cose più comuni smettono di essere passivi accessori della vita quotidiana per acquisire una vita propria, affrancata dai criteri dell'utilità, e volta unicamente alla ricerca di una bellezza libera, spontanea e creativa, anche se sempre rigorosamente aderente all'essenzialità anodina delle forme esteriori. D'altronde il moto delle macchine ha distrutto la fissità delle prospettive e la velocità ha sostituito la gradualità della scansione visiva con un fluire confuso e vorticoso.
L'étoile de mer (11', Man Ray, 1928) Trasposizione cinematografica di una poesia di Robert Desnos. La vicenda di due amanti è vista attraverso un vaso trasparente pieno di liquido: il recipiente che ospita una stella di mare, un essere infinitamente lontano da noi uomini, che pure sembra guardarci con curiosità. La rifrazione ottica del vetro priva le situazioni dei nitidi contorni del presente, trasferendole in una dimensione universale, in cui gli eventi non seguono le molteplici ragioni individuali, ma sono solo fenomeni paradigmatici, che si ripetono sempre uguali nel corso della storia umana. Tutto appare freddo, anonimo e distante, come ciò che è ben noto e non fa più effetto; o come una donna che si è negata al sentimento. La perfezione si fa guardare da lontano, come Dio, come la bellezza mitica, e come l'ignoto che si nasconde in fondo all'universo.
Anémic cinéma (6', Marcel Duchamp, 1926) Una rotazione di spirali unisce l'illusione ottica e il gioco di parole: qui il cinema, privo di figure umane e di oggetti concreti, parla ai sensi col linguaggio dei segni in movimento. Il dinamismo serve a guidare lo sguardo lungo un particolare percorso di lettura, in cui le frasi si rivelano, poco a poco, come scherzi linguistici sulle omofonie e sui significati ambigui. La poetica dadaista riduce le parole a suoni da comporre in tutta libertà, senza vincoli semantici; ed è proprio attraverso l'effetto sorprendente e comico di certi calembours che l'alfabeto rivela le sue potenzialità artistiche. Nella scrittura creativa, le lettere devono giocare lo stesso ruolo dei colori nella pittura, ossia devono essere gli elementi costruttivi primitivi delle opere, soggetti a requisiti estetici e formali (come saranno, di lì a qualche decennio, le contraintes dell'Ouvroir de Littérature Potentielle di Raymond Queneau et Georges Perec). Il principio della creazione artistica non è più quello dell'armonia condiscendente ai canoni consolidati, bensì quello dell'analogia nascosta ed inattesa, della combinazione nuova, che non riproduce un legame insito nella natura delle cose, bensì lo inventa di sana pianta, secondo le associazioni libere del genio.
La coquille et le clergyman (31', Germaine Dulac, 1927). Da una sceneggiatura di Antonin Artaud, una storia surreale di violento conflitto tra dogmatismo e istinto, in cui la conchiglia è l'anello di congiunzione tra le icone rituali (l'acquasantiera, le ali distese della colomba bianca) ed i richiami della carnalità (le coppe di un reggiseno). La messinscena è un sogno-incubo scatenato, nella mente di un sacerdote, dalla gelosia e dalla repressione sessuale; il simbolo religioso si trasfonde nel simbolo freudiano, l'allucinazione si fa interprete dei desideri inconfessabili, e la psicanalisi diventa così il frenetico e tartagliante teatro degli impulsi. Nelle immagini si riconosce un omaggio dell'autrice a Marcel Duchamp, di cui esse riprendono la predilezione per le forme circolari e la passione per il gioco degli scacchi.
Un chien andalou (15', Buñuel, 1929). Una storia dallo sviluppo spiazzante, che corrisponde ad una rivoluzionaria visione della vita: quest'ultima è continuità, che però non comporta, necessariamente, coerenza né evoluzione; né il rapporto causa-effetto è retto da leggi universali che ne spieghino la logica. Il senso, se c'è, è, semplicemente, un "nesso", un legame di contiguità non altrimenti definibile, ma non è un significato riconducibile a schemi generali. Il funzionamento del mondo non conosce regole, ma segue, come unico principio, quello della concatenazione degli eventi: raccontare una storia non è nient'altro che il processo di inanellare situazioni, senza alcuno scopo morale o razionale. Ciò è tanto più vero nel momento in cui la narrazione vuole farsi arte: non c'è, infatti, estro più grande ed imprevedibile di quello proveniente dal caso.
Le ballet mécanique (16', Fernand Léger, 1928) Primo film senza copione, nel quale, come si legge nel cartello introduttivo, "gli altoparlanti allontanano dallo schermo ogni possibilità di sogno". In quest'opera il cinema è ridotto a puro dinamismo visivo, senza significati metaforici né suggestioni simboliche, con un movimento che esclude il divenire: tutto è ripetizione ciclica, pulsazione, oscillazione, non c'è un prima e non c'è un dopo, ma soltanto una successione di istanti sempre uguali. Guardare questo film è come stare dentro la vita delle macchine, per le quali lo scorrere del tempo non è nient'altro che apparenza, perché tutto ciò che va ritorna indietro. La colonna sonora, fatta di squilli di sirene e ticchettii metallici, scandisce un agire ritmico che è solo coreografico, non produce novità ed è vuoto di storia: uno spettacolo sul quale gli occhi si posano sgranati e inespressivi, mentre la bocca si schiude in un sorriso che sembra tirato col filo sul volto di una marionetta. Questo cortometraggio, cui fa da cornice l'animazione di uno Charlot di cartone in versione dada, fu definito da Ejsenstejn un "capolavoro raro": ed in effetti è proprio in questa pellicola - che fa della balbuzie un'arte, e presenta la sconnessione dell'espressività e l'incapacità di articolare come un'eccentrica magia – che il cinema esalta la sua autonoma facoltà di incanto, slegata dalla sudditanza alle vicende umane.
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