Regia di Harmony Korine vedi scheda film
Film a due facce, difficile da valutare. La prima parte non mi ha convinto per niente; molto meglio la seconda. Sta di fatto però che la seconda parte non si spiega senza la prima, che quindi andrebbe rivalutata come funzionale all’interessante piega che il film di Korine prende nell’ultima mezzora. “Spring Breakers” ha tutta l’aria di un teen-movie, anche se le primissime inquadrature (una massa indefinita di giovani ragazze e ragazzi alle prese coi consueti divertimenti del break di primavera floridiano, accompagnati da ralenti e musica tamarra) fanno subito intuire che l’intenzione di Korine è quella di riflettere, in qualche modo, sulla sostanza-immaginario di cui si occupa il film. Detto questo, ci imbattiamo subito in una definizione dei personaggi che è la più standardizzata possibile: le classiche tre biondine senza cervello (avrebbero potuto essere anche 4 o 5 o qualsiasi altro numero, tanto non cambiava niente: non vi è alcuna differenza psicologica fra di loro), “moralizzate” dalla morettina coscienziosa imbronciata cupa triste carina casa e chiesa. Mentre le 3 ochette se la spassano allegramente senza mai ricorrere una volta alla materia grigia, quella “seria” tenta di trovare una filosofia in tutto ciò che sta facendo, chiamando a casa per spiegare che lo spring break non è solo divertimento, ma anche un modo per trovare la propria interiorità (e amenità di questo genere); quando poi confessa alle 3 “amiche” il desiderio di fermare il tempo in quel magico paradiso di bikini e cocaina (“Spring Break per sempre!”, uno dei tanti slogan-tormentoni del film), le bionde irridono la sua sensibilità. Pare quasi una parodia degli adolescenza-movie mucciniani, dove ragazzi tormentati (da cosa, non si sa) ritengono che una settimana trascorsa in un’isola greca possa costituire la svolta nella loro infelice vita. E’ talmente banale la dinamica narrativa e psicologica che viene da pensare che Korine abbia voluto apposta snellire lo script e mettere in scena situazioni e personaggi stereotipati, per poter rendere più evidente il suo discorso estetico e morale. Peccato però che ciò non accada in questa prima metà di film, poiché mancano elementi dialettici, antifrastici; non c’è nulla in questa prima parte di “Spring Breakers” che permetta allo spettatore di scorgere al di là del contenuto manifesto, di cogliere qualcosa che contraddica ciò che stiamo vedendo. Per tre quarti d’ora, il film di Korine è semplicemente un gustoso e plasticamente licenzioso film sulla brama di libertà tipica dell’età giovanile, specie in un contesto edonista come quello a stelle e strisce. E si prova empatia per le 4 ragazze (anche perché le loro avventure ricordano, bene o male, magari con qualche eccesso in meno, esperienze vissute da tanti). A nulla di particolarmente significativo serve, sempre in questa prima parte, lo splendido montaggio alternato, armonioso, rimato, incrociato, se non a divertire lo spettatore, anche correndo il rischio di sottolineature retoriche (non vedevo un film statunitense montato in modo così ispirato da non so quanti anni, eccezion fatta per i film della Bigelow: pareva di essere tornati allo Scorsese dei tempi d’oro o alla spregiudicatezza delle varie nuove onde e nuove Hollywood). Poi però qualcosa cambia. Il triangolo soldi-droga-sesso diventa un quadrato, aggiungendosi la componente distintiva degli USA (in primis, del loro immaginario cinematografico e musicale, vedi i vari "Scarface" e "Una vita al massimo", entrambi citati, e il mondo criminale di certo hip-hop): la violenza. Le 4 cappuccette rosse incontrano il lupo cattivo e ne sono più che affascinate. Un ributtante gangsta-rapper diventa il mezzo attraverso cui le spring breakers rompono definitivamente la barriera della legalità e penetrano entusiaste ed esaltate in un mondo dove ogni atto, anche uccidere, è visto come un’esperienza formativa, ricreativa, divertente. Questa seconda parte è davvero ammirevole per come Korine riesce a far scivolare gradatamente la vicenda da una parvenza di realismo al visionario puro: si potrebbe anche interpretare questa seconda parte come nient’altro che una fantasia perversa da parte delle fanciulle, una volta arrestate a metà film. La rapina-gioco (splendido piano-sequenza!) dell’inizio stuzzica il desiderio di ricercare un piacere più estremo di quello offerto da soldi, sesso e droga: ossia ferire ed uccidere altre persone. La voglia di evasione dalla noia della vita collegiale diviene una sorta di volontà di potenza, e le spring breakers vivono questa loro brama di sangue con gioia ed amore. Sparare ed uccidere diventa qualcosa di ludico (“Facciamo finta che sia un videogioco”). E' qui che il montaggio alternato acquista senso, rendendo a livello filmico la progressione dall'immaginario fintamente trasgressivo dei party verso l'abiezione più sadica, folle ed arrogante; al punto che il momento clou è un numero da musical dove una ballata romantica di Britney Spears diventa la colonna sonora di una violenza iperrealista, riproposta a ralenti che paiono la parodia volontaria di quelli di Sam Peckinpah. Quest'ultimo ispira non solo l'insensata e inverosimile carneficina finale, ma l'idea stessa della violenza iperbolica come esasperazione visionaria della Morte del Sogno Americano (nel "Mucchio Selvaggio", Peckinpah lo faceva col western, qui Korine parte dal teen-movie vacanziero, ma la sostanza è quella). Geniale anche l'utilizzo del sonoro, con l'uso ricorsivo (quanti ritornelli, visivi ed uditivi, in questo film!) del rumore del caricamento della pistola, come un richiamo ossessivo alla violenza. Ricorsiva è anche l'adozione della voce fuori-campo come commentario anti-frastico delle immagini, e qui l'illustre Maestro ad essere intelligentemente ripreso/parodiato è niente meno che Malick. E' vero, il rischio di cadere nella sottolineatura declamatoria, nella retorica "spiegazionista", cartina di tornasole di un cinico moralismo camuffato, è alto. Ma rientra tutto nell'ambiguità tipica di quella parte di Arte (anche cinematografica) che intende adottare un'estetica (e tutte le implicazioni morali che essa comporta) per rovesciarla dall'interno: dalla pop-art al cinema post-moderno, gli esempi si sprecano. Korine rientra in questa categoria e "Spring Breakers", dopo parecchi tentennamenti, riesce nel finale a guadagnare spessore teorico. Sicuramente, quegli ultimi 30 allucinati minuti fanno la differenza, col risultato di fare un po' rimpiangere quello che avrebbe potuto essere il film intero, se solo la prima parte fosse stata un po' meno "preparatoria". Quello che conta è che Korine abbia saputo dire la sua, componendo memorabili pagine di cinema, riguardo a quella cosa chiamata American Dream.
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