Regia di Harmony Korine vedi scheda film
Harmony Korine, giovane e talentuoso cantore dell’America reietta e abbandonata alla follia delle degradate areee suburbane. Il suo cinema è indipendente, miscelato a documentario, la verità e la sua rappresentazione si sovrappongono in una dialettica dolorosa.
Dagli sniffatori di colla di Gummo (1997), ai giovani osceni e disadattati di Julien Donkey boy (1999) e della curiosa collaborazione con Werner Herzog che recita una parte, ai melanconici sosia di star autoesiliati di Mr Lonely (2007), Korine non ha mai distolto lo sguardo dal retro del sogno americano. Il vicolo dove ci stanno i cassonetti e l’immondizia si accumula nel fuori campo dell’America da esportazione, fuori dallo sguardo dei giusti.
Ancora prima scrittore per il discusso Kids (1995) e Ken Park (2002) di Larry Clark , ancora giovani carini e disadattati, storia di solitudine stemperata nel sesso. Lo sguardo di Korine non ha mai fatto sconti fissando negli occhi il disagio e sbattendolo sullo schermo con una nota lieve di scherno misto ad affetto. I suoi personaggi sono a loro modo eroi che si trovano a sopravvivere in un mondo alieno senza averne una gran voglia.
Spring Breakers è diverso, ammicca al fascino del proibito e si atteggia a maledetto in modo fastidioso, irridente. Quasi ingenuo. Esattamente come le quattro studentesse di college che vogliono partecipare allo Spring Break sulle spiagge della Florida, la festa di Pasqua degli studenti. Una gigantesca orgia di eccessi alcolici, chimici e sessuali. L’ambizione è vedere qualcosa di diverso e conoscere gente nuova, essere felici e provare emozioni mai provate. Gli eccessi prendono la mano alle ragazze che capitate nelle grinfie di ALIEN un gangster rapper dai denti d’argento, vengono instradate al crimine, alle rapine, fino allo scontro con la banda di gangster rivale.
Spring Breakers è un gioiellino di lucidità e disprezzo espresso in una provocazione che ammicca al trash ma che conduce nei territori ben codificati della più deleteria cultura di massa. Lo sberleffo è completato dal reclutamento delle plastificate divette dei programmi Disney , corpi del reato di idealizzazione dell’immagine di cui sono portatrici (in)sane.
Vogliamo essere felici per sempre utopia postmoderna che coniuga la morale collodiana del paese dei balocchi con l’immaginario estetico dell’irrealtà televisiva.
Al tempo della società 2.0 nel paese dei balocchi chimici non si diventa asini e si lavora per sostenere il sistema, si resta così com’è affondando in un delirio autocelebrativo che promette emozioni estemporanee senza alcun investimento emotivo. Le quattro pinocchiette, Vanessa Hudgens, Selena Gomez, Rachel Korine (moglie del regista) e Ashley Benson bramano l’utopia del fermare il tempo nella felicità caotica che lo Spring Break permette.
Ninfette al neon colate dai deliri della gioventù televisiva, prodotti aberranti della Mtv generation, della gioventù trendy idealizzata e sovraesposta in caleidoscopiche condivisioni schizofreniche di pezzi di sé. Un sé esistente solo se esploso nelle sue parti e proiettato nella rete – youtube- come cellula di un altro da sé globale, fagocitante e distopico, formante la cultura della deprivazione sensoriale spacciata come forma di libertà che trae una morale comune dalle immoralità condivise delle sue singole cellule.
Oltre la trasgressione, non sono cattive ne’ buone ne’ sante ne’ puttane. Sono prodotti in carne della cultura di massa esposte in una esperienza di premorte sociale ove tutto si muove in un tempo acido e allucinatorio. Fluorescenti e eccessive, amorali , plastiche, tumide ammiccanti e disinibite, mani da donna e facce da bambine, l’immagine viene vomitata fuori dalle tendenze videoclippare dei rapper, un immaginario pop colato dalla cacofonia dei media: televisione, youporn e youtube, videogames.
Vogliono vivere “come in un fottuto videogame” e quel videogame, ammiccante alla cultura eighties , dai colori fluorescenti, il giorno e la notte che si scambiano di posto in tramonti cremisi e albe rosa, con i suoi personaggi che attraversano il mondo criminale sulle superstrade della Florida e in un finale mutuato da Scarface , nella villa dalle luci ipnotiche, non è altro che GTA Vice City. E’ quello che promette il videogioco che ha sconvolto la metodologia videoludica in una giocabilità infinita, ripetibile in loop e irripetibile come sensazione di immortalità. In Vice City puoi essere felice per sempre.
L’estetica è quella degli anni 80. L’inizio in ralenty sulle pance e i bicipiti guizzanti dei ragazzi in spiaggia sotto una pioggia d’alcool è mostruoso quanto sarcastico. Le immagini alternano riprese televisive così da trasportare il senso della vicenda dal reale vissuto alla sua rappresentazione. Come sarebbe se io mi guardassi ripresa mentre faccio quello che faccio. La dislocazione sensoriale e percettiva è totale, il distacco emotivo dalla realtà altrettanto netto.
C’è tanta ironia, (dis)gusto dell’eccesso, un po’ di autocompiacimento. Korine in regia utilizza lo stesso mezzo che vuole condannare, la stessa estetica, la stessa frammentazione stilistica rimanendo sul filo della furberia paracula. Forse viste le star impegnate, non affonda del tutto il colpo e il film risulta più uno scherzo ben riuscito piuttosto che strappare i sensi con lo shock delle immagini. In questo senso i suoi film precedenti erano molto più disturbanti.
Ma tant’è, il divertimento c’è tutto, il film non segue una narrazione lineare e si srotola secondo l’immagine iconizzata che di volta in volta decide di prendere a modello. Il party selvaggio, la commedia romantica, il pulp tarantiniano e appunto le storie dei videogiochi e della televisione più deleteria.
Le ragazze sono aliene come una generazione intera di adolescenti è aliena al mondo che abita, schizofrenia che confonde il reale con la virtualità di una condizione estetica imposta dai media.
Estetica e non etica, in quanto l’estetica – mosse, pose, vestiti, bikini – diventa essa stessa etica di massa, condivisa e accettata. James Franco alias ALIEN che sembra uscito da un video clip di MTV è in realtà un fantoccio in balia di una nuova generazione di corpi anestetizzati, pronti a farsi colonizzare dalla moda del momento e ingestibili nella bulimia compulsiva di sballo sesso & violenza che ricercano in modo quasi fanciullesco.
Le mamme a casa non sanno nulla. Non sanno che le loro bambine in passamontagna rosa, in bikini e armate con fucili d’assalto hanno sterminato una banda di gangster. Al telefono, nei deliranti dialoghi con i genitori, le ragazze vogliono solo essere migliori, impegnarsi e fare le brave, parole che sembrano uscite dalle rimette delle hit di R’N’B ripetute come mantra.
Spring Breaker va visto con occhio critico, con pazienza e sopportazione. Va a strappi coniugando banalità a momenti irresistibili, eccessi che eccessi non sono – nella festa con orgia si scorge a malapena una tetta - e un esplicito rimando ad una cultura popolare videodipendente, social condivisa, youtube uplodata.
Soprattutto andrebbe visto in lingua originale, perché tante sfumature gergali di quella cultura (acida) pop alla quale il film fa riferimento è presumibile che si siano perse nel doppiaggio.
Per il resto, non c’è da scandalizzarsi , il film non eccita - non è l’intento del regista, anzi è l’opposto – non scandalizza poiché è già tutto sotto i nostri occhi.
Dopo tutto lo diceva già Cyndi Lauper in un famoso videoclip del 1983: Girl just want to have fun.
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