Regia di Harmony Korine vedi scheda film
«Facciamo finta di essere in un film»…
Un mansueto Harmony Korine posa il suo sguardo et(il)ico, moral(eggiant)e sulle deformazioni ossessive-compulsive, irredimibili e irrimediabili, del Sogno americano.
Innanzitutto la mania (possessione) del possesso, la sua ostentazione, la roba: notasi l’elencazione - fiera, machista, cafon(esc)a - che l’incredibile (nel senso di non credibile) rapper/gangster/visionario Alien snocciola come formula di (auto)idolatria e appagamento autoerotico. Armi, donne, denti d’oro, Scarface in modalità loop assimilante, “opere d’arte” (espressione di sfrenata beatitudine volgare e vigliacca), tutto quello che si può comprare/possedere con Sua Maestà il Danaro, ossia il reale fondamento/comandamento degli States. Soldi per potersi godere lo sballo, soldi per correre sempre più veloce, soldi per “murarsi” nell’infinita (dis)illusa perversione di affogarne paure e turbamenti esistenziali.
Poi - come da tipicissima, immor(t)ale accoppiata (col danaro di cui sopra), alimentatrice infaticabile e perpetua di qualsivoglia situazione si venga a creare - il tabù per eccellenza e per grazia ricevuta, il Sesso. Sublimato all’inverosimile nei pastosi pascoli irrorati da oceani di alcool, droghe e liquidi organici, per mezzo del Sacro Graal che ogni giovane che si rispetti ricerca: lo sballo. Sballo sballo sballo, nella classica declinazione da college, appunto: lo Spring Break. Al ritmo vertiginoso, vorticante e sincopato di atti progressivamente oscuri più che osceni, di esposizioni spensierate e parossistiche, stiticamente voluttuose (ma l’esibizione dei nudi è sterile, quasi cartoonesca), e di movenze psicotiche, la “sballitudine” non può che passare dal sesso - esplicito, simulato, evocato, suggerito -, dalle sue forme di manifestazione e attrazione.
Infine, l’eterna illusione, quell’insana, inevitabile voglia di cogliere il momento e fermarlo, racchiuderlo in una sorta d’ignara sospensione “peterpanesca”. L’alternativa alla crescita, alle arsure della vita, alla cronica incancrenente insoddisfazione di sé e di tutto quello che gravita intorno, è il distacco dalla realtà, la fuga dentro un mondo perfetto, glitterato e perennemente vestito a celebrazione dello sballo, in un particolare periodo: lo Spring Break Forever. Per sempre insieme, lontano da casa, dagli studi, dalla noia, dall’insostenibile pesantezza del vuoto, dai voraci abissi della quotidianità.
Gli elementi, dunque, della più semplice e semplicistica, nonché primordiale, materia, costituiscono un atto di accusa sull’evoluzione della specie, in pratica un apologo dagli ovvi obiettivi ma dai dubbi intenti.
Korine stende il suo favoloso tappeto magico che si libra tra sfondi cromatici conturbanti ed estrosi, flussi estetici e registici multiformi - sovente notevoli e stimolanti -, onde sonore sincronizzate sulle frequenze dell’oblio “sballoso”, istantanee fotografiche preziose (geniali quando i corpi si animano destrutturano forme e spazio) - questo per riaffermare le sue indiscutibili virtù.
Con un uso - che trascende fastidiosamente in abuso - della reiterazione, il regista e autore del copione pare eseguire una preghiera. Le frasi-motto si susseguono inesauste a declamarne i versi (Facciamo finta di essere in un film; Spring Break per sempre; voglio essere migliore; il Sogno americano; Hai paura, vero? ti fotti di paura) di uno scomposto, banale requiem, con le invadenti voci fuori campo (ivi comprese le telefonate ai familiari) a dettare armonie e tempi (come un Malick in acido dedito a filosofeggiare sull’irreversibile decadimento della società moderna, inevitabilmente simboleggiabile dagli eccessi della gioventù).
Tanto da disinteressarsi della storia (la sceneggiatura singhiozzante e precipitosa ne rivela la subalternità), dei personaggi (in primis l’Alien del sopravvalutato James Franco, il cui culmine dell’irritazione lo raggiunge quando si produce nell’elogio di Britney Spears) - caricati oltremodo e dai contorni confusi - e del suo stesso vigore e spirito provocatorio e indie.
Non si può non notare come la presenza, così reclamizzata, discussa nelle più disparate e disperate sedi, delle tre divette in odor di Disney e dintorni elegiaci/virginali (Selena Gomez, Vanessa Hudgens, Ashley Benson) sia meramente strumentale (non a caso l’unica a spogliarsi chiaramente è l’”intrusa”, coniuge del regista, Rachel Korine), un tassello essenziale del quadro di richiamo della massa. I sospetti di mercificazione, di abbandono alle diaboliche logiche del commercio forse sono un pensiero troppo azzardato, ma certo le perplessità sul prodotto ci sono eccome.
Spring Breakers, pur superiore, e di gran lunga, a molti film che nuotano nello stesso (de)genere o riempiono gli stessi spazi di cinema “altro” e “oltre” - e proprio perché ideato/diretto/scritto da Harmony Korine - non sconvolge, non (dis)turba, non rimane.
Lo sballo abita altrove.
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