Regia di Sofia Coppola vedi scheda film
La retorica dell’apparire . Bling Ring, nuovo film di Sofia Coppola, intima indagatrice della celebrità e delle sue derive ossessive, può essere considerato l’opposto speculare del precedente Somewhere, vincitore al festival di Venezia del 2010. La celebrità vista da dentro , Johnny Marco alle prese con il tedio della vita d’agi, e la percezione della celebrità da chi vorrebbe passare ai piani alti della visibilità planetaria e intanto si accontenta di rubare vestiti. Tratto da una storia vera Bling Ring narra di un gruppo di post adolescenti che sembra vomitato da un libro di Bret Easton Ellis, che si introducono nelle case delle star per rubare i loro oggetti e divenire quindi, fashion come i loro – falsi- miti. Con l’unica differenza che questi giovani fashionistas non sono neppure psicotici. Il vuoto che rendeva interessante Patrick Beatman e la sua congrega di amici de Le regole dell’attrazione o American Psycho, erano la sublimazione di un malessere sociale derivante dalla mancanza di empatia con il prossimo e un’emotività narcotizzata dalla necessità di apparire. In Bling Ring questo malessere viene riempito di vestiti e ammennicoli luccicosi.
E’ il mondo della griffe che simula uno status simbol, l’apparire si è straformato nell’imposizione della propria immagine, proiezione olografica di una presunta personalità. I social network moltiplicano all’infinito questa immagine che diventa l’unica possibile testimonianza di vita su una porzione di pianeta terra. Non a caso i miti che vengono copiati e derubati sono quelli fatui di Lindsay Lohan nota più alle cronache giudiziarie che per meriti artistici, l’onnipresente prezzemolina Paris Hilton e altre stelle e stelline di questo universo in disgregazione continua. Le personalità di questi personaggi famosi, sono ben descritte dall’opulenza esibita delle loro case, accessibili, trasparenti come l’immagine stessa dei proprietari, corpi autoptici scrutati al loro interno in una continua estenuante e indispensabile esibizione del sé.
E’ un trattato sociologico di giovanilismo contemporaneo, quello della Coppola che affida al suo consueto stile asciutto e impietoso una vicenda che sembra scritta proprio per lei.
“Hai un disperato bisogno di Chanel” diceva Stanley Tucci stylist ad una bellissima ma anonima Anne Hathaway ne Il diavolo veste Prada. Ed era vero. Ma Chanel è eleganza. Riveste una personalità e la rende unica. Quello che il gruppo di ragazze più un ragazzo incline a vaghe inclinazioni omosex ricercano, è l’ immedesimazione nella personalità altrui. L’essere come il personaggio famoso non ha più come obiettivi il talento del modello ma l’apparire del modello stesso, così come l’apparire e l’essere famoso non ha più nessuna attinenza con un qualsivoglia talento. Si può essere famosi e basta. Peggio ancora: si può apparire come se si fosse famosi. Questa la chimera. Il processo che vede protagonisti i ragazzi dopo che sono stati beccati – postando le foto sui social network della roba rubata per acquistare popolarità – li trasforma immediatamente in oggetti popolari a loro volta e a loro volta imitabili.
Lo stile asciutto e “vuoto” della Coppola ben si addice a questa storia di ingenui ragazzi vuoti. Emotivamente anelgesizzati e un po’ stupidi. Vacuità intellettuale che si accorda a quella dei miti anelati e derubati. Paris Hilton che lascia le chiavi della magione sotto lo zerbino di casa. Non oso nemmeno immaginare come possa essere in realtà lo zerbino di casa Hilton. In un cortocircuito metanarrativo, le case utilizzate nel film, volgari e ricolme di trofei griffati, sono proprio quelle dei divi derubati. Mostrate così come sono, grottesche nella loro esibizione di cattivo gusto, alla faccia delle firme che marchiano la roba accatastata come in una novella di un Verga 2.0.
Parimenti alle immagini che fanno da eco al vuoto siderale del gruppo di ragazze più uno, anche i dialoghi sono altrettanto attenti a non dire assolutamente nulla nello stridulo, sincopato comunicare delle giovanotte, con urletti, sospironi new romantic alternati a “fuck” o a “bitch” che fa tanto cool. Tra una foto e l’altra e tra un tiro di coca e l’altro, regolarmente postato su Facebook, vera piazza virtuale del nulla reale.
Sembra incredibile, ma è una storia vera e l’approccio è quasi quello documentaristico, poiché la storia è tutta lì, nelle cronache giudiziarie. Basta aggiungere le facce giuste. L’intento però non è la mera documentazione del fatto, la Coppola prende una posizione precisa, e accorcia il distacco con il montaggio alternato del loro pentimento, ipocrita, che mira all’esposizione mediatica. Adulti non pervenuti o mostrati in tutta la loro inadeguatezza. Ragazzi ripresi come se fossero divi a riposo tra una ripresa e l’altra, scomposti in pose innaturali prestate dalle pagine di riviste di moda. C’è tutto in questo film, ovvero nulla. Oppure è un nulla che ambisce al tutto, non si sa e il film paga questa ambiguità con la perdita di riferimenti che intende provocare. Spiazza per semplicità, infastidisce per lo stesso motivo.
Ambiguità che è nella natura stessa del popolo USA, diviso tra moralismo e consumismo sfrenato, idolatrazione di divinità pop mischiata a culti fai da te sospesi in un grottesco paganesimo new age che non trova appiglio in nessuna manifestazione della realtà sociale. La Coppola ci sguazza in questo melting pot di nulla, poiché è solo e sempre una variazione sul tema dell’analisi costante dell’uomo messo in relazione con la percezione della celebrità e le conseguenze che ne derivano. Il romanticismo delle vergini suicide si è trasformato però, in brevissimo tempo, in una psicotica condizione del successo che non spinge più gli adolescenti al suicidio ma aiuta chi è scaltro, bugiardo e sfacciato a divenire quello che ha sempre sognato. Ladre trasformate in dive da talk show che ripetono banalità da social network. E’ il sogno americano e lo è sempre stato.
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