Regia di Bille August vedi scheda film
Bille August è un regista sopravvalutato che però vale davvero molto meno di quanto si potrebbe dedurre dando uno sguardo distratto alla sua carriera- Qui coinvolge pure un Jeremy Irons alle prese con un personaggio sgualcito e tristo, inerte e svagato almeno per buona parte della storia, che non riesce a rendere plausibile.
Bille August è stato uno dei più grandi misunderstanding di tutta la storia del cinema.
Immeritatamente salutato al suo apparire sulla scena internazionale come il naturale erede di Ingmar Bergman (Pelle alla conquista del mondo sua prima e contestatissima Palma d’Oro sulla Croisette nel 1987 e vincitore di numerosissimi altri premi in patria e internazionali, è il film che gli dette onore e fama ben oltre il suo valore, a conferma di una eccessiva miopia critica delle giurie che presiedono i festival a volte molto inclini a farsi trascinare da facili entusiasmi, che il tempo ha poi giustamente ridimensionato, ma che da subito si sarebbe potuto considerare per quello che effettivamente era, poco più di una diligente illustrazione zeppa di esasperante accademismo di un romanzo di Martin Anderson-Nex? vivacizzata solo dalla straordinaria resa attoriale di Max Von Sydow). E’ dunque da considerarsi un regista più fortunato che interessante, e deve dunque indubbiamente molto del suo prestigio proprio a quell’indebita assonanza un po’ azzardata, poiché ha davvero poche cose da condividere con il grande artista a cui è stato accomunato (oltre a qualche attore e la nazionalità di nascita, a mio avviso solo – e limitatamente alla fase iniziale della sua carriera - un certo gusto iconografico nella composizione delle immagini, non sorretto però da un analogo pathos narrativo).
Quello che sorprende è semmai la tenuta nel tempo della sua fama d’autore che è rimasta inalterata per troppi anni e che si è poi persino amplificata sul finire del secolo scorso, a causa della sua seconda Palma d’Oro (quella davvero incomprensibile) assegnata di nuovo a Cannes nel 1992 per il suo Con le migliori intenzioni, probabilmente di tutto ciò che ha realizzato, la cosa migliore, ma solo in ragione della fonte, poichè partiva proprio da una solida storia scritta e lasciata in eredità dalla stesso Bergman che metteva in scena la travagliata vita dei suoi genitori, Henrik Bergman e Anna Akerblom (ottimi in ogni caso gli attori arruolati nell’impresa, Pernilla August in testa).
Guardando adesso le cose in retrospettiva, a me sembra comunque persino impossibile che un poco più che mediocre regista come lui sia potuto assurgere alla gloria di ben due Palme, privilegio non molto frequente mi sembra, una peculiarità che lo ha fatto equiparare per lo meno sulla carta, a ben più grandi e dotati autori di indiscusso valore (mi riferisco ancora a Cannes del 2007 e alla celebrazione dei suoi primi 60 anni festivalieri dove anche il suo nome era immortalato fra le stelle più fulgenti emerse dalla manifestazione rivierasca.).
Naturalmente l’America lo ha accolto subito a braccia aperte concedendogli immediatamente un largo credito e mettendogli di conseguenza a disposizione ingenti capitali e interpreti prestigiosi, non sufficienti però come ben sappiamo, a garantire – in mancanza di un manico adeguato - risultati artistici di eccellente levatura., ma in genere anche bastevoli per lo meno ad assicurargli i consensi di parte di una larga fetta di pubblico, che lo hanno fatto diventare di conseguenza un abbonato di adattamenti storico–letterari per quel che mi riguarda invero poco interessanti (e ancor meno appassionanti) da lui riproposti sul grande schermo in pompa magna, una bella calligrafia e qualche lacrimevole sbavatura ricattatoria di troppo, ma privati però del trasporto e della forza empatica che i racconti e le collocazioni storiche avevano in originale grazie agli autori di riferimento (vedi i fallimentari esiti de La casa degli spiriti dal libro di Isabel Allende, di Il senso di Smilla per la neve da Peter Hoeg o dei suoi ipertrofici e soporiferi I miserabili da Victor Hugo, dove tutta la magnifica galleria dei personaggi descritti nel romanzo veniva “miseramente” ridotta a figurine unidimensionali prive di anima e di adeguato carisma).
Nemmeno i suoi ritorni in patria sono stati molto produttivi (mi riferisco in particolare a
Jerusalem, interminabile (e per più di un verso insopportabile) saga sull’ossessione religiosa e amorosa poco al di là del feuilleton televisivo di mediocre levatura.
L’Europa tutta ha comunque continuato imperterrita a puntare su di lui con una insolita generosità di capitali (lo conferma il suo schematizzato ritratto degli anni della prigionia di Mandela da lui offertoci con Il colore della libertà derivato dal libro di James Gregory Nelson Mandela da nemico a fratello eliquidato da R. Escobar come un film che parla di un eroe troppo coerente e trasparente per essere davvero credibile che segue di qualche anno l’altra coproduzione americana L’ora della verità (forse l’esito più infausto di tutta la sua carriera) e anticipa questa sua ultima fatica di cui mi accingo a parlare adesso visto (sciaguratamente) in una anteprima che non ho voluto perdere perché probabilmente se riesco a stare lontano dai cinepanettoni che so già in partenza di non gradire affatto, non riesco purtroppo ancora a liberarmi dal fascino e dalle suggestioni di molte trasposizioni in immagini dei romanzi che si trasformano nelle mani sbagliate, in veri e propri cinepolpettoni (per rimanere in tema), genere in cui a questo punto August (sopravvalutato accademico della regia) è diventato a pieno titolo un indiscusso, tedioso e poco creativo “maestro” (si fa per dire) buono per tutte le stagioni, ormai davvero poco più che un mestierante inopinatamente esploso a suo tempo come un fragoroso fuoco d’artificio che aveva però già allora le polveri bagnate, anche se solo in pochi se ne vollero accorgere.
Per questa sua nuova fatica (anche questa piuttosto costosa in termini di investimenti finanziari), si sono dunque consociate insieme Germania, Svizzera e Portogallo per farne una coproduzione di ampio respiro che - come già accaduto ai tempi della Allende e della sua Casa degli spiriti con la quale ha molti punti di contatto (il groviglio sociale e drammaticamente coinvolgente degli eventi; la ricostruzione della tragedia di una nazione soffocata dalla dittatura; lo spunto preso da un romanzo di successo; l’utilizzo dello stesso attore per il ruolo del protagonista) - ha consentito l’adesione al progetto di un nutrito e blasonato parterre di attori, quasi tutti però impegnati al loro minimo sindacale, che vanta la presenza in campo di un cast, sulla carta poco meno che eccezionale: Jeremy Irons, Martina Gedeck, Charlotte Rampling, Tom Courtney, Bruno Ganz, Lena Olin, Christopher Lee, e ancora Mélanie Laurent, Jack Huston e Augusto Diehl (questi ultimi tre decisamente i migliori in campo anche se non c’è comunque da stare ugualmente molto allegri) che in altre mani avrebbero potuto far scintille, mentre invece qui è (quasi) sempre calma piatta anche sotto il profilo della recitazione.
Treno di notte per Lisbona, dunque, tratto di nuovo da un bestseller (di grandissimo successo soprattutto in Germania) dello scrittore svizzero Peter Bieri ma pubblicato sotto lo pseudonimo di Pascal Mercier e già tradotto in ben 15 lingue.
Passiamo allora subito alla storia (si capirà così meglio cosa intendo dire quando prima ho accennato al “ricatto morale” verso lo spettatore) che ha il suo motore principale nella figura di Raimund Gregorius, un professore di latino lasciato dalla moglie per la sua inconsistenza caratteriale, che si trova di conseguenza a condurre un’esistenza noiosa, solitaria e invero poco stimolante nella ancor più noiosa e brumosa città di Berna. Un andamento della vita ormai privo di soprassalti, incolore e spento, almeno fino al giorno in cui, sotto una fitta pioggia, si trova suo malgrado, nella condizione di dover sottrarre alla morte una ragazza che sta per suicidarsi gettandosi da un ponte. Lui la salva, ma senza riuscire però a entrare in comunicazione con lei, che fugge via quasi dolorosamente irritata per questo salvataggio in extremis che evidentemente non aveva messo in conto, senza dare alcuna spiegazione sulle ragioni del suo folle gesto, né tantomeno ringraziare il salvatore.
Come era però abbastanza prevedibile, la donna nel fuggire lascia una traccia che non poteva non risultare intrigante per il professore, costituita da un cappottino rosso da lei fatto cadere a terra prima di tentare il tuffo sventato, che ha nella tasca il libro di uno sconosciuto scrittore portoghese Amadeu de Prado (che scopriremo poi essere stato uno scrittore un romanziere attivo nella resistenza portoghese contro il dittatore).
Ma… quale ulteriore, inesorabile stimolo a indagare, dentro alle pagine dell’elegante e un pò antiquato volumetto, l’uomo scopre anche l’esistenza…. nientepopodimenoche… di un biglietto ferroviario per Lisbona (più che una “tentazione” insomma).
Inevitabile a questo punto che il professore decida di usarlo quel biglietto, un po’ perché incuriosito dal comportamento della fanciulla, un po’ perché affascinato dagli aforismi filosofici trascritti nel volume recuperato dal cappotto (in pratica a mio avviso, sollecitato invece proprio dalla necessità di portare avanti la narrazione che a questo punto in mancanza di tale scelta, inesorabilmente si sarebbe esaurito ripiegandosi su se stesso, e di conseguenza non si sarebbe potuto né scrivere il libro né fare questo film).
Dunque Raimund Gregorius, seguendo l’impulso della curiosità, decide di affrontare quel viaggio seduta stante (senza pensarci su insomma) e si ritrova così catapultato nella solare Lisbona, la bellissima capitale portoghese affacciata sull’Atlantico, vestito di tweed, privo di bagaglio al seguito con nemmeno un vestito di ricambio, il pigiama e lo spazzolino da denti, e persino con gli occhiali rotti (altro elemento importante soprattutto per dar nuovo respiro alla storia). Sarà infatti l’incontro con l’optometrista alla quale si rivolge per farsi riparare quegli occhiali a creare una nuova sintonia di pensiero che determinerà uno scambio di reciproche confidenze che aprirà poi la strada a una serie di incontri del professore con personaggi anagraficamente più vecchi di lui che rimandano tutti però al drammatico passato del Portogallo oppresso dalla spietata dittatura fascista di Salazar e riportano così in primo piano e in parallelo, la coraggiosa lotta condotta in clandestinità dai dissidenti, fino alla rivoluzione dei garofani, che ristabilirà gli equilibri democratici del paese.
Personaggi ormai attempati dunque, ma tutti però con un passato vissuto pericolosamente: esausti sopravvissuti insomma di una stagione tragica e dolorosa, superstiti loro malgrado schiacciati dal peso delle proprie responsabilità e chiusi dentro i ricordi per alcuni drammatici e per altri epici, legati appunto alle loro passate esuberanze che li portarono ad osare in età giovanile incuranti del pericolo, in anni in cui, soffocati dalla Storia funesta della loro patria, amarono e tradirono, rischiarono la vita in nome di un ideale o si trovarono a comporre pericolosi triangoli intrisi di passione, tutti elementi che riemergono dalla memoria e che vengono puntualmente rievocati nei numerosi racconti “a ritroso” e negli altrettanto numerosi flashback che costellano la pellicola e la rendono un pò disordinata per i continui rimbalzi fra passato e presente, invero gestiti con insufficiente scioltezza, che rendono il racconto un po’ farraginoso e meno avvincente del dovuto, o peggio ancora molto vicino alla macchinosa artificiosità di uno sceneggiato di lusso ma esanguemente asfittico pensato e realizzato per il pubblico più malleabile e disponibile della televisione.
Se le figure della maturità sono sorrette dalla presenze visivamente carismatiche di Tom Courtney Bruno Ganz , Christopher Lee, Charlotte Rampling e Lena Olin, quelli corrispondenti rivificati dalla memoria nei numerosi andirivieni verso il passato della storia (concentrati principalmente su quel “particolare” triangolo a cui accennavo sopra e che rappresentano forse i momenti più riusciti di tutta questa polverosa e un po’ stantia pellicola), hanno i volti (e la bravura) di August Diehl, Jack Huston e Mélanie Laurent (che si è rammaricata però di non aver potuto condividere nemmeno una scena con Jeremy Irons la cui presenza nel cast era stata probabilmente la ragione principale che l’aveva indotta ad accettare questa partecipazione al film).
Il protagonista principale (il professore di latino) come ormai si sarà ben capito, è invece ancora una volta proprio il male utilizzato (dal regista) Jeremy Irons, alle prese con un personaggio sgualcito e tristo, inerte e svagato almeno per buona parte della storia, che l’attore sembra non essere in grado di risolvere, anche perchè August non lo aiuta minimente ad individuare una più giusta chiave di lettura (di conseguenza, proprio per la sua irrisolta indeterminazione, non ci meravigliamo affatto che la moglie abbia deciso di lasciarlo, come confesserà lui stesso alla gentile optometrista, interpretata da Martina Gedeck con cui è entrato un contatto a causa degli occhiali rotti).
Ovviamente alla fine c’è anche una più che prevedibile morale ugualmente scontata e tutt’altro che nuova che ci ricorda (se mai fosse stato necessario farlo) l’inerzia del presente e come invece tutta la passione messa in movimento in quelle epoche passate (che ci appaiono remote benché non lo siano poi più di tanto) quando era inevitabile lottare, fare delle scelte e prendere posizione, il riconoscerla e ritrovarla ancora viva nella memoria dei sopravvissuti, può diventare la molla capace per lo meno di stimolare e alla fine di convincere il nostro povero e scialbo protagonista, della irrimandabile necessità di ridare un po’ di smalto alla sua fiacca e sfilacciata esistenza (il che significa insomma rifarsi una vita finalmente, come si dice in genere in questi casi): se poi ce la farà a sostenerla davvero questa nuova impresa, il film ovviamente non arriva a raccontarcelo e dobbiamo quindi essere noi ad immaginarci “il dopo”.
La fotografia patinata e di sicuro effetto, è affidata al competente lavoro dietro la macchina da presa di Filip Zumbrunn, mentre la colonna sonora, gradevole, ma priva di particolari impennate, è opera di Annette Foks.
Considerato poi che l’ho potuto vedere in lingua originale, posso osservare come ulteriore nota di demerito, che pur trattandosi di una vicenda che si sviluppa fra Svizzera e Portogallo, trova invece tutti gli interpreti (come è ormai d’uso nelle produzioni internazionali di prestigio) a parlare sempre e comunque in Inglese indipendentemente dalle loro nazionalità e residenze ben evidenziate nel film che dovrebbero farli invece esprimere in tutt’altri idiomi, il che dà un ulteriore senso di fastidiosa irrealtà a tutto il contesto, per altro notevolmente appesantito anche dall’eccessivo uso che viene fatto della voce fuori campo a cui sono affidate molte delle seriose riflessioni intorno alla vicenda.
Devo ammettere comunque che forse se si trattasse di un altro regista magari alle prime armi, avrei potuto assegnare alla pellicola per lo meno una risicata sufficienza, ma non mi sento proprio di farlo in presenza di un regista troppo osannato e ormai in rovinosa caduta libera come August. Visto che è proprio lui al timone, al massimo posso assegnargli due striminzite stellette (con buona pace anche della mia coscienza politica che mi fa sempre sentire un poco in colpa quando non riesco ad apprezzare queste rivisitazioni un po’ eroiche e troppo convenzionali di un passato fatto di lotte combattute per raffermare la propria libertà). La responsabilità del pollice verso non è dunque mia: sta nel modo in cui il tutto è stato impaginato e mostrato e quindi non potrei in ogni caso fare altrimenti… nonostante quel ricatto emotivo che pure esiste e avverto, e a cui accennavo sopra.
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