Regia di Giacomo Campiotti vedi scheda film
Com’è complicato l’amore. Non lo si può spiegare in due parole. O meglio, si può a patto di sceglierle bene, quelle due parole. Allora chiunque, in qualsiasi momento, potrebbe pronunciare una splendida verità, bella e illuminante, e saprebbe essere chiarissimo. Sbaglia chi crede che il gergo giovanile sia un’approssimativa e conformistica forma di ermetismo. Se vuole, può essere infatti una lingua sublime, tale da far invidia a Dante. Un fantasioso poco che riesce a dire tutto. Dribblando i luoghi comuni con l’agile guizzo di un colpo di testa o di una smorfia da pagliaccio. Nel buffonesco teatro dell’adolescenza, pelle, capelli e vestiti sono i simboli in fuga che si riempiono di colori, reali o immaginari, per cogliere al volo tanti arruffati brandelli di gioia e di dolore, o di ingenue illusioni scambiate per emozioni importanti. Leo, sopra quel palcoscenico, è davvero un leone. Non ha paura a mostrarsi irrequieto, pasticcione, avventato e persino insicuro. L’impulsività dei suoi sedici anni è una fonte di istrionica energia, che si riversa sul mondo per lasciarvi un segno indelebile, e poi decidere di cancellare ogni traccia. È la passione che fa le bizze, dandosi arie da sentimento vero. Fa i capricci come una primadonna, e quindi si ritira frettolosamente dalle scene. I muri della camera da letto vanno dipinti a sguazzo con la vernice rossa, poi con quella bianca. Il sì e il no sono assoluti e totalizzanti, ma si alternano in perfetta par condicio. Non basta infatti attaccarsi con tutta l’anima ad un’idea per trovare un punto fermo nella tempesta. La forza della convinzione è solo una forma finta di costanza, un surrogato della profondità richiesta dalla fede. Leo, tuttavia, crede svisceratamente nella sua venerazione per Beatrice. Per lui, quella ragazza è lo spunto di ogni iniziativa, futile o seria che sia. È un’icona a cui attribuisce la facoltà di accendere la carne e il pensiero, e di dare un significato all’esistenza intera. Leo vive la sua età da vagabondo senza meta, eppure immagina di orbitare ordinatamente intorno a lei. Quella ragazza diviene la proiezione inconscia del suo intimo desiderio di stabilità. È tenendo gli occhi fissi su di lei, senza mai toccarla, che Leo può diventare adulto, compiendo, in suo nome, sciocchezze da quattro soldi e gesti nobilissimi. Nel film di Giacomo Campiotti - e nell’omonimo romanzo di Alessandro D’Avenia - Beatrice, dopo sette secoli, torna ad essere la sfuggente musa ispiratrice di un giovane qualunque, piuttosto immaturo ed impacciato, che ammirandola giunge però a realizzare imprese impensabili. Come, ad esempio, dimenticarsi di sé. Oppure superare la propria cecità affettiva, e cominciare a vedere nel proprio cuore e in quello altrui. La sua metamorfosi avviene attraverso una banale vicenda a base di fatterelli da commedia liceale, con scherzi, scazzottate, partite di calcio, contrasti con i professori, sullo sfondo delle solite gelosie e rivalità tra compagni di classe. Non compaiono svolte romantiche né retorici colpi di scena. Il percorso rimane realisticamente intrappolato nella sua naturale mediocrità di viaggio effettuato a tentoni, pieno di sbandate, errori, esitazioni. La stessa rivelazione è un sussurro incompleto, che si fa avanti a fatica, e rimane amaramente segnato dal dubbio, dalla voglia di saperne di più. Intendendosi male si impara a pensare, a trarre conclusioni ponderate, accettandole come passibili di cambiamento. L’abbaglio è, comunque, una fonte di luce: un lampo che nasconde la strada, ma, per un istante, illumina una parte ignota di noi.
“Ma se davanti alla scuola c’è Beatrice è un’altra cosa. Occhi verdi che quando li spalanca prendono tutto il viso. Capelli rossi che quando li scioglie l’alba ti viene addosso. Poche parole ma giuste. Se fosse cinema: genere ancora da inventare. Se fosse profumo: la sabbia al mattino presto, quando la spiaggia è sol con il mare. Colore? Beatrice è rosso. Come l’amore è rosso. Tempesta. Uragano che ti spazza via. Terremoto che fa crollare il corpo a pezzi. Così mi sento ogni volta che la vedo. Lei ancora non lo sa, ma un giorno di questi glielo dico.” (Brano tratto dal romanzo di Alessandro D’Avenia)
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