Regia di Mikael Håfström vedi scheda film
Con Escape Plan torniamo in piena atmosfera caciarona e virile dell’action-movie anni ’80: con qualche accenno di ironia in più, sembriamo tornati, ruga più, ruga meno, alle atmosfere di Cobra o Codice Magnum, con cui i due muscolari eroi si contendevano le platee di tutto il mondo. Sly Vs. Swarzy: i due divi cult di quegli anni, (ora un po’ bolsi ma in fondo sempre in forma invidiabile se si pensa a tutte le numerose e quasi imbarazzanti primavere da pensionati che si portano appresso con spavalda disinvoltura e stoica irriducibilità, rigidi come stoccafissi impalati e fieramente incuranti di poter risultare caricaturali quasi a livello di ispirar tenerezza). I due eroi muscolari che hanno rappresentato meglio di ogni altro quegli anni reaganiani disinvolti ed accelerati: il decennio del profitto facile, della forza fisica e dell’ostentazione del machismo come contrappunto all’uomo firmato, fashion e pittato rappresentato da certe rock band dell’epoca (Duran Duran o Spandau Ballet); due star in quegli anni acerrimi rivali, ora al contrario alleati per la medesima causa dal momento del ritorno sulle scene di Swarzy dopo l’avventura politica che ce lo ha tenuto lontano per quasi un decennio.
Sly è come sempre e come già accaduto (i Mercenari, quasi giunti al capitolo 3) il vero indiscusso protagonista, questa volta nei panni di un esperto di sicurezza, autore di prodigiosi ed avveniristici progetti che hanno reso inespugnabili alcune famose carceri di tutto il mondo: luoghi che in seguito lui stesso è solito testare di persona, introducendosi come detenuto e sottoponendosi ad estenuanti e rischiose detenzioni complete di fuga, quando possibile e per confutare la necessità di un suo intervento sul sistema di sicurezza della struttura presa in esame . Solo Stallone poteva lasciarsi coinvolgere in una simil “follia”, che tuttavia ha almeno il pregio di lasciarsi guardare veloce e senza pensieri se non il ritornare indietro ai tempi del nostro ventennio di quanta/cinquantenni odierni.
Quando il “commerciale” del suo staff lo tradisce catapultandolo nel carcere più sicuro ed inespugnabile al mondo (per forza! L’ha progettato Sly stesso), posto in mezzo al mare su una nave-piattaforma in un punto imprecisato dell’oceano, Ray Breslin (questo il suo nome) dovrà mettere alla prova tutta la sua tattica e prestanza fisica per riuscire ad assicurarsi l’evasione. In quest’impresa disperata sarà essenziale l’aiuto del detenuto Emil Rottmayer (Swarzy), ma anche di altre figure fondamentali all’interno di quel microcosmo da incubo, dove giustizia sommaria e violenze psic-fisiche la fanno da padrone.
L’attore austriaco ex governatore californiano ha in questo contesto l’intelligenza e l’umiltà di accodarsi all’istrionismo di Sly, risultando peraltro migliore (e fisicamente più in forma –alemo di faccia - di uno Stallone sempre più gommoso, tutto smorfie e occhio cadente, tutto rigido ed impettito da sembrare la caricatura di se stesso.
Il filmaccio procede in modo piuttosto prevedibile, ma tuttavia non ignobile, con qualche dialogo cult (o scult) soprattutto quando entra in scena la bionda di turno; la regia affidata all’ordinario Michael Halfstrom non contribuisce molto a rendere più accattivante una routine ed un dejà-vu carcerario che proprio con Sly ha toccato ad inizio anni ’90 i suoi livelli più dozzinali.
In mezzo a tutta questa calma piatta, che potrà venir almeno tiepidamente apprezzata da un pubblico di 40/50enni nostalgici del decennio della propria gioventù, fa tuttavia piacere ritrovare, tutti e tre in ruoli fondamentali, sia Vincent D’Onofrio (il laido), sia Jim Caviezel (il cattivo), che Sam Neill (il buono).
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