Regia di Doris Dörrie vedi scheda film
In una piccolissimo centro della Germania vivono Trudi e Rudi, un’anziana coppia con tre figli lontani. Il film inizia con Trudi che riceve dai medici la notizia che il marito ha poco da vivere e le consigliano fare qualcosa insieme a lui prima che il conclamarsi della malattia glielo impedisca.
La notizia è agghiacciante ma Trudi non dice nulla al marito. Rudi è un uomo molto tranquillo e metodico, prende il treno alle 7.28, attraversando il paesino dove incontra sempre la stessa papera che passeggia e un gatto solitario, si reca in città a lavorare in un ufficio comunale che gestisce la spazzatura e torna la sera. Stesso percorso e stessi incontri. Trudi lo accoglie in una piccola casa, ma ormai troppo grande per loro, piena di riferimenti giapponesi e a fatica lo convince a fare un viaggio. Andare a Tokio dal figlio piccolo sarebbe il suo desiderio ma è troppo lontano e troppo costoso. Partono cosi per andare dai figli, un maschio e una femmina, che si trovano da qualche parte in Germania. Troveranno due estranei che a malapena celano il fastidio della loro presenza, dei nipoti che non staccano gli occhi dalla playstation. Andranno così da soli, liberando i figli dalla loro presenza, sul mare del Nord e in un albergo su una spiaggia davanti ad un mare di piombo, di notte nel sonno muore non Rudi ma Trudi.
Tornato a casa, in una casa silenziosa e vuota, Rudi capisce che la moglie racchiudeva in sé un’altra donna che ha rinunciato a tutto per il matrimonio, per lui e per i figli. Il sogno di Trudi era il Giappone e la danza Butoh (una danza stranissima, dai movimenti statici e al rallentatore) che lei praticava da giovane.
Rudi decide di andare a Tokio a trovare il figlio piccolo, un altro estraneo preso dal lavoro e che non ha un attimo per il padre. In questa città così caotica Rudi porta a spasso la moglie attraverso i suoi occhi e attraverso i suoi vestiti indossati sotto il soprabito. In questi vagabondaggi conosce in un parco, sotto uno scenario di fiori di loto, una giovanissima ragazza che balla nel parco la danza Butoh usando un telefono di plastica dal lunghissimo filo a spirale. I due diventano amici e insieme andranno a vedere il Monte Fuji. Al cospetto della montagna, che dopo alcuni giorni di attesa si disvela dalle nubi, Rudi esce all’alba dall’albergo e accennerà alcuni passi di Butoh rivedendo insieme a lui la moglie e muore.
E’ un film che mi ha preso molto ed è difficile spiegare perché. Sarà l’età, sarà la lontananza di mio figlio, saranno i vuoti che si vanno creando tra le persone care e che rimangono presenti in tutta la loro desolante assenza, sarà il corpo che manda i segnali del tempo che passa e che non fanno presagire nulla di buono, sarà l’assenza di uno spirito religioso che aiuti ad accettare tutto questo. Il tema del film è la morte vissuta da questa coppia di anziani, che si sono molto amati, e di cui uno resta solo e resta solo, inopinatamente, il più fragile psicologicamente e fisicamente.
Tuttavia, pure essendo un film sulla morte e la sua ineluttabilità, non è come Amour che evidenzia l’amore di questa anziana coppia nella devastante malattia. Quello mi è sembrato un film molto più triste in cui la morte incombeva come un convitato di pietra e, alla fine, visto che non arrivava saranno loro a darsela.
Qui Rudi cerca di rimanere in contatto con la moglie con meccanismi al limite del patologico, mette i suoi vestiti sulla sedia ( la gonna stesa, sopra un maglione, e sopra una collana) e li guarda come simulacro di lei, mette il pigiama di lei sull’altra metà del letto e la macchina da presa lo inquadra dall’alto con lui che cerca la mano di lei. Sono meccanismi forse eccessivi ma che tutti in qualche modo facciamo per superare un limite insuperabile. A me piace indossare il vecchio orologio di mio padre e per anni ho conservato i vestiti di mia madre e nell’armadio mi sembrava ancora di percepire il suo profumo. Rudi a Tokio porta in giro la moglie indossando, sotto il cappotto, i suoi vestiti. Strano, ma come direbbe Woody Allen, basta che funzioni. E per Rudi funziona. Per qualche aspetto, questo ricreare un simulacro di chi non c’è più mi ha fatto venire in mente Psycho ma in quello il meccanismo orribile partiva dal senso di colpa per il matricidio.
Alla fine la conoscenza della ragazza farà trovare a Rudi un veicolo non razionale per elaborare il lutto facendo riviverla in qualche modo in lui. Molto dura la scena finale sulla cremazione, lo scheletro calcinato che viene preso e messo con le pinzette nell’urna, mi ha ricordato Jule e Jim. Alla fine, al di là di ogni costruzione consolatoria è quello che ci aspetta.
Il film merita un 4 stelle ma io mi sbilancio in un 5.
(film visto al Goethe Institut di Palermo, con sottotitoli)
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