Regia di Robert Lorenz vedi scheda film
Non è il solito film americano sul baseball.
Invece sì: lo è. E con tutti i sacri crismi del caso.
Opera di buona fattura, indubbiamente, con tutte le cose giuste al posto giusto. Pure troppo: i meccanismi ben oliati azionano una struttura alquanto nota, dagli sviluppi ampiamente prevedibili e dagli effetti parimenti preannunziabili, seppur rassicuranti nella loro solida, elementare rappresentazione.
Il mondo sportivo, ed in particolare quello del baseball ben si presta a fare da sfondo a vicende personali, con ampio ricorso a metafore tanto rudimentali quanto efficaci e dalla vasta portata. In sostanza si coniuga la spettacolarità e le sfumature del gioco (che in fondo è abbastanza statico, ma gli americani sanno sfruttarne abilmente allo scopo ogni peculiarità) con i destini di uomini catturati nel loro momento di riflessione, di passaggio da un passato pieno di errori e rimpianti ad una presa di coscienza di sé. La formula (con)vincente.
Vecchi aspri ricordi, figure vicine dalle quali - per paura, per un mal calcolato senso di protezione, per vigliaccheria - si è tenuti lontano e che ora ritornano pretendendo chiarimenti e approvazioni -, interferenze esterne, la vecchiaia che avanza inesorabile: passi tutti, non privi di contrasti, ostacoli, incomprensioni, che non possono che avere (lieto) termine col cambiamento.
Come sopra accennato, probabilmente troppi colpi vanno a segno: il ricongiungimento, un possibile amore, l’abbandono dell’odioso lavoro (poco da fare: gli avvocati sono “geneticamente” antipatici) per uno nell’adorato mondo del baseball (complice la scoperta di un campione già venditore di noccioline: nulla di nuovo sotto la mazza), il riscatto dell’anziano ma indomito leone nei confronti di chi lo credeva non più capace e soprattutto di chi gli vorrebbe fare le scarpe (facile: il giovanotto che usa solo il computer non poteva certo avere la faccia simpatica dello Jonah Hill di Moneyball!).
E pure la moralina non manca: il panciuto potenziale fenomeno, troppo borioso e smanioso di soldi successo e donne, non può che rivelarsi un bluff (non sa colpire le palle curve, da cui il “problema” del titolo originale).
Anche i personaggi, con tutto il loro composito e riconoscibile armamentario di problemi, speranze, paure, relazioni, sanno di già visto, percorso. Ma tutto sommato viene riservato loro il tempo e la cura necessari per renderli in maniera efficiente e interessante.
Quello che dovrebbe fare la differenza, stante una regia asciutta, attenta a non mostrarsi (non che sia un male, anzi: l’influenza eastwoodiana è fin troppo palese), è la divisione attori. Il cast è valido, ben assortito, con scelte che vanno dalla sicurezza all’eccellenza tra i comprimari (un John Goodman meno debordante del solito, Robert Patrick, Bob Gunton), anche se naturalmente l’attenzione tutta è indirizzata alla coppia di protagonisti (ché Justin Timberlake è uno scipito terzo incomodo), Amy Adams e l’immarcescibile Clint. La loro è una buonissima, coinvolgente alchimia, in grado di sostenere sia il registro drammatico sia quello brillante, ed è il frutto del riuscito incontro tra la granitica, rugosa, imponente fissità di Eastwood e le capaci doti recitative della Adams. Ne viene fuori un ritratto piuttosto credibile, così come lo sono le dinamiche che animano il difficile rapporto.
E poi, polemiche politiche a parte, vedere il vecchio grande Clint col sigaro in bocca che grugnisce e s’allontana sullo schermo fa sempre effetto.
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