Regia di Nicolas Bary vedi scheda film
L’opera narrativamente schizofrenica e spumeggiante, e, almeno sulla carta, estremamente cinematografica, di Daniel Pennac sulle avventure e disavventure di un “capro espiatorio” nella giungla metropolitana della quotidianità cittadina, dove gli orrori più efferati si impastano ed amalgamano con ironica nonchalance alla comicità di fondo legata alla follia collettiva di una società che si ostina a resistere correndo senza mai fermarsi a chiedersi alcunché - e a tutti gli effetti soluzione geniale, professionale e molto più realistica di quanto si possa pensare - passa da oggetto di una notissima saga letteraria forte di ben sei successi a livello planetario, incentrata tutta sulle concitate e spassose vicende in capo alla numerosa famiglia Malaussène, alla via della trasposizione cinematografica.
Una operazione un po’ fuori tempo rispetto a quegli irresponsabili ed esagitati anni ’80 in cui fu concepita l’opera letteraria, almeno nei suoi primi fortunati episodi. E che, per tale motivo, avrebbe meritato quantomeno il rispetto delle tempistiche temporali originarie, piuttosto che l’attualizzazione ai giorni odierni, tra cellulari e tecnologie che rendono meno fondamentale la presenza-baluardo del centro commerciale, dio potente e oggetto di culto più plausibile di un ventennio precedente piuttosto che dell’attuale epoca che ci caratterizza.
Un adattamento che sognavo fin a partire dai primi anni ’90, e a cui attribuivo una naturale predisposizione per uno spumeggiante adattamento all’abile regista Jean Pierre Jeunet.
Il progetto tardivo e, a mio avviso addirittura un po’ fuori tempo, di trasposizione, finito nelle mani di un giovane volonteroso Nicolas Bary, diviene comunque l’occasione per rivisitare cinematograficamente, almeno a tratti o a singhiozzo, le emozioni vissute nella lettura concitata delle bizzarre gesta del mite Benjamin Malaussène, giovane subissato di responsabilità familiari e lavorative sempre più complicate da gestire e quasi impossibili per non farcisi sommergere.
Il paradiso degli orchi è già nella pagina scritta un nuovo Marcovaldo di un decennio successivo, aggiornato ad una furia consumistica che si globalizza ed accentra a sé ogni desiderio e necessità, e che permette ai soliti potenti e scaltri burattinai di manovrare e deviare i sentimenti di contrarietà dei consumatori finali, provati per ogni qualsivoglia difetto riscontrato sui loro acquisti, sulla pelle di un’unica vittima sacrificale, sottoposta platealmente a “cazziatoni” mortificanti in modo da indurre a desistere da ogni azione ufficiale, il compassionevole utente truffato o ingannato.
L’idea e il risultato dell’opera letteraria sono geniali, e ancor più la capacità dello scrittore di cucirvi intorno storie e vicissitudini che sembrano fantasie barocche, ma fondano le proprie radici nel marcio di una società corrotta e perversa, tingendosi di giallo e di nero all’interno di un intrigo da thriller concitato e frenetico.
Il film si giostra come può in queste brusche virate di stile, privilegiando il lato colorato e quasi naif della vicenda, con Malaussène e i suoi pigiamini improbabili, il suo cagnone epilettico e scoreggione, la sua variegata famiglia di geni, maghi e ragazze madri sagge e amorevoli, oltre ad una zia Julia avvenente e formosissima a cui ben si prestano le spericolate curve della mai così prorompente Bérénice Bejo.
Insomma un film riuscito solo a tratti, ma che, proprio in prossimita' di questi ultimi, diverte e riapre piacevoli ricordi, ma anche nostalgie incomparabili ripensando alla pagina scritta. Un finale preparatorio con l’ingresso in scena della “fata carabina” Isabelle Huppert è una valida premessa per un probabile futuro adattamento di quello che forse è il più spassoso tra tutti i romanzi della serie.
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