Regia di Koreyoshi Kurahara vedi scheda film
Nankyoku Monogatari è la storia di un tradimento, non voluto, pieno di attenuanti, di sensi di colpa successivi, di bisogno di riscatto e compensazione, ma tradimento resta, e vile come ogni tradimento. Quei cani sono stati abbandonati dall’uomo, non è avvenuto il contrario.
Tre anni di riprese e campione d’incassi in Giappone nell’83, gli anni trascorsi non hanno scalfito la forza di Nankyoku Monogatari (La storia del Polo Sud) docu-film splendidamente fotografato e musicato, arrivato in occidente col titolo di Antarctica.
Film fatto di suoni e rumori, luci che si sprigionano dalle innumerevoli sfumature del bianco, scorre con immagini di rara intensità emotiva, in un rapporto d’integrazione costante fra piano visivo e musicale.
La colonna sonora di Vangelis, fatta di brevi frasi melodiche e ariosi arrangiamenti sinfonici, commenta il racconto drammatico con movimento grave e profondo, dando ad una storia vera la tonalità dolente di scelte sonore dalla prosodia poco variata, che traducono il sentimento doloroso in sensazione quasi tattile.
Unica debolezza, una sceneggiatura che sembra accessoria, come abbozzata, sovrastata com’è dalla vera materia filmica che prorompe dalle superbe riprese grandangolari, illuminate dalle luci incorporee dell’aurora boreale e dal linguaggio degli animali, segnico, sonoro, preverbale.
E’ il 1957, anno internazionale della geofisica.
Il geologo Ushioda (Ken Takakura) e il meteorologo Ochi (Tsunehiko Watase) sono scienziati di una spedizione giapponese (Japanese Antarctic Research Expedition) stanziata presso la Base Showa nell'isola di Ongul in Antartide.Fanno parte del team 15 cani di razza Sakhalin Husky, alias Karafuto-Ken.
Una rischiosa spedizione a Botsnnuten, nell'entroterra antartico, si è appena felicemente conclusa grazie alla bravura di due cani che hanno salvato in extremis il gruppo dei due scienziati e il Dr. Ozawa (Matsako Natsume)
La missione, durata un anno, è finita e si aspetta il cambio dalla seconda squadra di ricerca giunta dal Giappone sul guardacosta Soya.
Ma è la fine di Dicembre del 1957. le avverse condizioni meteo bloccano la nave e il rompighiaccio americano Barton mandato in soccorso. La seconda squadra non può arrivare e bisogna evacuare in fretta la base.
Per i cani non c’è posto sull’elicottero, vengono lasciati legati alla catena con le provviste per una settimana e la convinzione che presto sarebbe arrivata la seconda spedizione.
Sappiamo che questo non fu possibile e tredici cani morirono nelle condizioni peggiori.
Unici a sopravvivere furono Taro e Jiro, fratelli, ritrovati da Ushida e Ochi al loro ritorno l’anno successivo.
Jiro è morto nel Luglio del 1960, durante la quinta spedizione in Antartide.
Riportato in Giappone, il suo corpo è stato imbalsamato nel Museo Nazionale di Scienze a Ueno, Tokyo.
Taro è morto all’età di 15 anni, nel 1970, nella sua città, Hokkaido, che gli ha dedicato una tomba presso l’Università.
Nankyoku Monogatariè la storia di un tradimento, non voluto, pieno di attenuanti, di sensi di colpa successivi, di bisogno di riscatto e compensazione, ma tradimento resta, e vile come ogni tradimento.
Quei cani sono stati abbandonati dall’uomo, non è avvenuto il contrario.
La pena nel vedere la loro sorte è incommensurabile, una regia misurata e attenta li segue nel tentativo, disperato e perdente, di sopravvivere, la natura è matrigna con loro non meno che con l’uomo.
Ma ancor più della ricerca di sopravvivenza, Koreyoshi Kurahara ci fa leggere tutta la gamma dei loro sentimenti, lo stupore per essere rimasti soli, l’impotenza a cui sono condannati, con un collare stretto ancora più del solito al collo che ha reso la fuga più difficile, abbandonati da chi amavano, quell’uomo per cui avevano corso nella nebbia e che avevano salvato, lo stesso uomo con cui giocavano e che s’inchinava di fronte a loro dicendo: “tu sei il mio padrone”, in una delle sequenze più memorabili della prima parte.
La forza evocativa delle scene è alimentata dal realismo di riprese fortemente suggestionanti, così emotivamente forti da lasciare negli spettatori domande sbigottite circa la sorte dei cani usati per girare le scene.
Dallo schermo didascalie assicurano che i cani usati per la realizzazione del film non sono rimasti feriti, ma alcune situazioni estreme costringono a chiedersi fino a che punto possa arrivare il trucco cinematografico.
Andando comunque oltre i rigori animalisti, (anche l’uomo rischia in certe condizioni, e girare un film è spesso un’avventura imprevedibile), quello che da Nankyoku Monogatari emerge indiscussa è l’empatia profonda con un mondo animale capace di devozione totale, sofferenza estrema e perdono insperato.
Dopo un anno passato tra ghiacci e pericoli di ogni tipo, sepolti nel crollo di intere montagne, risucchiati in acque gelide per crepe improvvise nel pack, mentre orche assassine volteggiano nei vortici d’acqua pronte ad afferrarli, che due cani riescano a sopravvivere senza inselvatichire e corrano ancora incontro ai vecchi padroni, stringendosi a loro senza ringhiare, in un perdono senza condizioni, è cosa che gli umani non possono comprendere.
In quel paesaggio completamente bianco, il metafisico whiteout antartico, dove solo i pinguini sembrano a proprio agio, quelle macchie nere che corrono all’impazzata verso il nulla, con pezzi di catena al collo, mettono brividi che non sono i ghiacci a provocare.
Una voce narrante ci aggiorna, uno dopo l’altro, dei decessi.
Si resta muti ad ascoltare quegli ululati, quell’abbaiare sempre più debole, fino a diventare un guaito.
Li guardavamo correre, nella prima parte del film, tirando la slitta, incuranti di freddo, fatica e ferite alle zampe. Poi li abbiamo visti scattare come missili neri sulle distese ghiacciate, felici di compiere la missione che avrebbe salvato tutti.
Infine li vediamo crollare e morire, e non ci sono risposte che spieghino tanto male.
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