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Vi perdono ma inginocchiatevi

Regia di Claudio Bonivento vedi scheda film

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La recensione su Vi perdono ma inginocchiatevi

di lamettrie
8 stelle

Un ottimo film, per quanto televisivo, sulla mafia. Con un punto di vista assai originale: quello delle donne rimaste vedove, per via della scelta di servire seriamente lo Stato davvero da parte dei giovani mariti.

È innegabile che qui i rischi siano stati maggiori dei vantaggi, dati alla mano: i quintali di tritolo posti sotto un’autostrada sono ampiamente eloquenti. Lo sono soprattutto della debolezza di uno stato corrotto: queste persone, in uno stato sufficientemente normale, non sarebbero morte; o comunque sicuramente non sarebbero mai state uccise in quelle modo. Notevole la protesta di Sperandeo; memorabile il suo rifiuto di stringere la mano al superiore che, per motivi economici, ha minimizzato il mischio, che poi a Capaci si è tragicamente concretizzato. Ma tale rischio non era così peregrino proprio per il marciume delle/nelle istituzioni: un marciume concesso e avallato dall’elettorato italiano, oltre che dalle minoranze conservatrici che in modo criminale continuano a guidare l’Italia, a danno delle moltitudini, al Sud ma non solo.

Non nego che ho pianto parecchio, né me ne vergogno, ovviamente: in un film in cui si vede piangere tantissimo. Ciò è segno dell’autenticità della sceneggiatura, che mescola sapientemente la vita quotidiana degli affetti con gli alti valori morali che dovremmo tutti impiegare sul lavoro, in modo che venga elogiato maggiormente chi offre un contributo maggiore alla felicità pubblica.

Apprezzabilissima è la carrellata sulle amicizie di Antonio Montinaro, responsabile del terzetto immolato: toglie soldi alla sua famiglia, che non naviga nell’oro, per darne a dei poveri che non ne hanno per curarsi, oppure che hanno in lui l’unico baluardo contro la disperazione. Indimenticabile la scena in cui il sempre bravo Burruano dice alla fresca vedova – cui hanno appena ammazzato il marito e che si può immaginare come si sentisse – che ha perso l’unico amico che aveva, come se fosse la vedova a doversi sentire in dovere di consolare lui. In una corsa al ribasso dentro il dolore che è straziante, per quanto poi è stata tragicamente vera. Fra l’alto la vedova è qui la bellissima e bravissima Raffaella Rea, stoica poi nel suo tentativo di farsi forza al di là dell’inimmaginabile.

Ma non è da meno Silvia D’Amico, che è la vera protagonista, forse (del resto il soggetto è tratto da un suo libro autobiografico): altra vedova, è colei che legge la famosa lettera al funerale, che questo film rende in modo memorabile. Nel pianto dirotto, si interrompe sempre perché sa di non poter credere alle facili speranze retoriche, rispetto alla mostruosità di una cattiverà disumana che però prevale, impunita. Il prete fa una magra figura, quando cerca di biascicare i suoi inviti al perdono: l’odio è ben più legittimo, per quanto debba trovare solo sbocchi pacifici garantiti dalla giustizia. Un’utopia insomma, nella corrottissima Italia che la maggioranza degli elettori si sforza di far gestire ad associazioni a delinquere: partitiche, imprenditoriali o di altro tipo. Gli assassini sono protetti; invece gli onesti, e chi rischia per una società giusta e meritocratica, sono perciò penalizzati, anche nei modi più tragici. 

Ottima anche la colonna sonora, degli Stadio. Ma soprattutto la finezza psicologica, sugli affetti, che fa sì che quest’opera non sia affatto retorica, per quanto rischio ci sarebbe potuto essere. Eccome.   

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