Regia di Niels Arden Oplev vedi scheda film
Curioso come dall’incrocio casuale di due disperate rette della vendetta, illuminate da tormentose tenebre, possa nascere un rapporto destinato a germogliare (nella) violenza. Violenza che impera su menti e cuori, che impone azioni e reazioni, che sceglie vie a senso unico e vi(n)coli sempre più stringenti verso un abisso ineluttabile. Eppure quando la stessa deflagra, e le sorti paiono segnate da un percorso che è il frutto dogmatico di un’equazione perfetta, ecco che giunge - beffardo ed imprevisto com’è sua natura - il caos, a (s)travolgere regole e logiche, a prosciugare coscienze infette e asciugare gli animi madidi di tossicità: la catarsi si configura attraverso una pioggia purificatrice, portatrice (mal)sana della possibilità di un futuro che non sia quello di un'annunciata fine prematura.
Gli sfregi sul viso di Beatrice compongono un mosaico che riflette solo in superficie l’angoscia che porta con sé, che la opprime di continuo, in ogni istante, e che impulsi dall’esterno, come il dileggio di alcuni sbandati, non fanno che accrescere. Il punto d’intersezione, generato dagli incomprensibili moti del caso, è una distanza breve, brevissima, tra due micromondi, regni di solitudine e oscurità, che si specchiano condividendo una porzione di spazio velato a dolore. Un evento, una brutale uccisione da parte dell’enigmatico sconosciuto di fronte, Victor, e lo sguardo di Beatrice, prontamente fissato per immagini in quello del gelido mezzo digitale, intravede uno spiraglio, una possibilità. Il diabolico patto - un do ut des siglato in nome della morte - è una conseguenza sperata che scatena conseguenze imprevedibili: la nota meta inseguita per linee diritte muta in un groviglio nervoso che scarica fulminanti scoppi bellicosi e fissa sentimenti tingendoli di sangue e amore.
Seppur non esente da difetti e lacune - riguardanti soprattutto l’incompleta definizione di alcuni caratteri nonché l’apparente accessorietà di altri, la cui importanza è più intuibile che ben argomentata (in primis la madre di Beatrice interpretata da Isabelle Huppert) - come pure è riscontrabile una certa derivatività di fondo (consistente nella voglia di rincorrere modelli "alti" quali il polar), Dead Man Down - il sapore della vendetta è un noir thriller dal gusto “antico”, ammantato di autentica, viscerale passione per la storia e i suoi protagonisti.
Che sono inseguiti, amati e armati di un’impetuosa (im)pura disperazione: risulta così fluida e sensata l’alternanza delle scene dedicate all’introspezione, al loro relazionarsi, con la furia animalesca delle sequenze dinamiche in cui l’azione è tutt’altro che edulcorata o iperrealistica.
Insomma, non un esercizio di stile fine a se stesso (ovvero esclusivamente volto ad appagare una determinata fetta di critica e di pubblico), perché il racconto è efficace, la messa in scena tesa senza scadere nella concitazione o nella consueta baraonda sparatutto, e l’armonia tra gli elementi permette una costruzione solida ed a tratti fieramente diversa dai canoni del genere.
Per il regista svedese Niels Arden Oplev, senz’altro noto per l’adattamento cinematografico di Uomini che odiano le donne, una buona prova, dunque, anche per aver tentato (in parte riuscendoci) di mantenere il suo stile personale senza abbandonarsi bellamente alle conformità hollywoodiane.
Inoltre gli va sicuramente riconosciuto il merito di aver reso Colin Farrell, attore discontinuo e “perditempo” come pochi, in una delle sue performance migliori; complice anche l’affiatamento con un’altrettanto brava Noomi Rapace che tratteggia una figura complessa, in cui fragilità, tormento e un’inaspettata forza convivono in modo credibile.
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