Regia di Aida Begic vedi scheda film
Buon anno Sarajevo, della regista bosniaca Aida Begic, premio "Cinema e diritti umani" di Amnesty International Italia alla 48ma Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro è uno di quei film che ti lascia l'amaro nell'anima e ti fa sorgere tante questioni irrisolte.
Si avvale di una narrazione asciutta ma nello stesso tempo pregna e densa di suggestioni poetiche. Si racconta la condizione di una giovane e antica nazione europea attraverso gli occhi di una donna che vive sulla propria pelle i contrasti drammatici della Bosnia post-bellica. Il titolo originale è "Djeca" ovvero "Bambini". Nonostante Sarajevo sia una città che nel suo centro ha quattro luoghi di preghiera, un luogo musulmano, due cristiani, uno ebraico, a un centinaio di metri uno dall'altro, è una città che 20 anni dopo la guerra è ancora nella pericolosa fase di transizione. Tra il 1992 e il 1995, ha sofferto più di tre anni d'assedio da parte delle forze serbo-bosniache, durante la guerra di Bosnia.
Il film riesce a raccontare con decisione la condizione di una giovane e antica nazione europea attraverso gli occhi e la quotidianità di una donna che vive sulla propria pelle i contrasti drammatici della Bosnia post-bellica senza rinunciare alle proprie convinzioni.
Si sviluppa una storia che parla di diritti umani soffocati, della commistione tra criminalità e politica e del sacrificio di quello che è il fiore di una nazione ovvero la nuova generazione, resa drammaticamente e disperatamente orfana da una guerra non sua e non ancora superata".
-Siamo in una società di transizione che ha perso la sua bussola morale- afferma la regista, anche nel modo in cui tratta i figli di coloro che sono stati uccisi combattendo per la libertà della loro città. Sono già passati ventanni dall'inizio dell'assedio di Sarajevo, poco meno gli anni della protagonista...
Ma la transizione - prosegue la regista - non arriva a compimento.
A causa dell'inizio della guerra in Jugoslavia, il 6 aprile 1992 la città venne accerchiata ed in seguito assediata dalle forze serbe. La guerra, che è durata fino all'ottobre del 1995, ha portato distruzione su larga scala e una fortissima percentuale di emigrazione.
La ricostruzione della città è iniziata a partire dal marzo del 1996, subito dopo la fine della guerra. Ma sebbene già nel 2003 la maggior parte della città presentasse il frutto dei primi processi della ricostruzione, ad oggi Sarajevo mostra ancora i diversi segni del conflitto, sia nella parte nuova che in quella più antica (in particolare risultano abbastanza evidenti i colpi di proiettile presenti su moltissimi edifici ricoperti di gesso). Il centro storico ottomano e la parte ottocentesca, di impronta austriaca, a parte alcuni singoli edifici sono completamente rimesse a nuovo. I segni più evidenti della guerra si possono ancora trovare nella città nuova, Novo Sarajevo, dove molti edifici sono ancora distrutti, e accanto ad essi sono molti i cantieri di nuovi centri commerciali ed edifici destinati ai servizi
La sensazione dominante che effettivamente trasmette il film è l'incapacità di immaginare il futuro. La regista sottolinea che qui si vive ancora in un infinito presente con la costante paura del futuro, perchè la persistenza di questa fase di transizione è terreno fertile per il mantenimento dell'ingiustizia, della corruzione, della violenza, dell'intolleranza.
Se pensiamo al ristorante dove lavora Rahima ognuno a modo suo è un outsider. La protagonista perchè sceglie di portare il velo cercando consolazione nell'Islam (e sotto il velo che porta Rahima si dipana buona parte dei temi del film: un'ancora d'identità nel deserto creato dalla guerra un modo per isolarsi e procedere spedita per la sua strada, orgogliosa in strenua difesa di quello che resta della sua famiglia); il capo cuoco perchè appartiene alla minoranza croata ed è omosessuale. Dino il cameriere perchè è un saltuario drogato. La proprietaria del ristorante è rabbiosa e crudele, perchè il marito, che è divenuto un radicale wahabita, (movimento dell'Islam estremamente fondamentalista) le ha tolto la custodia dei figli...
La regista racconta che c'è una leggenda Sufi che parla di due uccelli, un corvo e un piccione che divennero amici del cuore. Quando la gente si chiese perchè due uccelli cosi' diversi fossero cosi' legati, si accorsero che mancava una zampa ad entrambi. Come questi uccelli i dipendenti del risorante condividono il proprio dolore.
Rahima seguita con la camera a mano è il paradigma di questa complessa realtà del dopoguerra.
Un film da vedere, da approfondire, per capire come si evolve la situazione in un paese cosi' vicino a noi e perchè della scelta dell'uno o dell'altro individuo di seguire una certa strada invece che un'altra.
Una regista, Aida Begic, molto sensibile, da tenere d'occhio e che fa venir voglia di vedere anche i suoi altri due lavori: uno che è quello in cui si è laurata, l'altro che è quello che è considerato il suo primo lungometraggio (Snow), che nel 2008 vinse a Cannes il Gran Prix de la Semaine de la critique.
Il film è candidato Oscar 2013 per la Bosnia ed Erzegovina come miglior film straniero. Da non Perdere.
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