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Les chevaux de dieu

Regia di Nabil Ayouch vedi scheda film

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La recensione su Les chevaux de dieu

di OGM
8 stelle

Il cavallo combatte una guerra non sua. È La guerra dell’uomo a cui appartiene, che si proclama il suo padrone, che lo cavalca restando con i piedi asciutti,  e che lui, in quanto  “bestia”, non può nemmeno guardare in faccia. Forse è solo un’idea sbagliata, quella che gli tocca portare a spasso per il mondo, dopo essersi lasciato addomesticare ed addestrare alla ferocia della battaglia. Gli hanno insegnato a non avere paura, anche se sarà lui ad affrontare il nemico, lui a morire. Spesso il cavallo ha anche un nome. Si può chiamare Tarek, Hamid, Fouad, Nabil. Può avere una famiglia, un lavoro, una fidanzata. E, soprattutto, una gioventù da bruciare, nel più letterale dei sensi. Sono dodici le bombe esplose, nel cuore di Casablanca, la sera del 16 maggio 2003. Dodici zaini che sono andati in pezzi, e si sono illuminati a giorno, nel giro di cinque minuti,  trascinandosi dietro le vite di altrettanti ragazzi kamikaze e di  trentatré vittime innocenti. Secondo l’emiro Abdu Zobeir, questa doveva essere la meta: la fine di un percorso di preghiera, digiuno, indottrinamento, iniziato quasi per caso, per le polverose vie di una sterminata bidonville sorta in mezzo al deserto, a ridosso della metropoli troppo occidentalizzata per i gusti di qualcuno. Questo film racconta una storia come tante: la sua provocazione risiede proprio nel suo essere così banale, perfettamente calata nella normalità delle esistenze di periferia, dove ogni cosa è ugualmente inutile ed importante. I dettagli non contano, ma in fondo sono tutto. Sono gli unici appigli da afferrare al volo, per dare un significato alle giornate faticosamente vane, desolatamente insipide. La follia di Amin è la disgrazia pittoresca che riempie l’angolo di una baracca. Ai deliri di quell’eterno adolescente fanno eco, come nobile controcanto, le lamentele dell’anziana madre, sempre più stanca, frustrata, preoccupata per i figli che non riesce a governare. Anche scavare nelle montagne di rifiuti, in cerca di oggetti da rivendere, è una pratica che dà colore all’esistenza, spogliando il gioco infantile della sua autoreferenziale frivolezza, ed impregnandolo della odorosa sostanza dei sogni: quella che, in questo caso, si mescola con il grasso delle officine, le spezie della cucina casalinga,  i fumi delle erbe proibite, l’aroma delle arance sul banchetto del mercato. Sono le fragranze che profumano la miseria, creando l’humus su cui possono crescere le favole: il mito del portiere Lev Yashin, il lusso delle medine, il paradiso di Allah. Sono le briciole, sparse a casaccio, i pezzi ideali per comporre un mosaico variopinto: i cocci sono malleabili e vivaci, nella loro primordiale caoticità, che ha rotto col passato e non conosce il suo futuro.

 

 

 

Nel Sahara non ci sono strade, né confini: solo linee immaginarie, tracciate dal desiderio di vedere l’invisibile, di considerare come un campo di calcio quella che è solo una distesa di terra battuta, dove è difficile capire se la palla è andata dentro oppure no. E da dove la palla può precipitare, oltre l’orlo del burrone, perdendosi per sempre. I contorni sono indefiniti, i limiti inesistenti. Solo in mezzo a questa surreale libertà è possibile credere che l’aldilà sia un traguardo a portata di mano, raggiungibile con una semplice pressione su un pulsante. In assenza di una mappa, anche la retta via è una questione di immaginazione. È questo il fantasma che riempie la mente nei momenti di noia, e che la fa volare, quando il cavallo è stato lanciato al galoppo. I frammenti si esaltano, allora, per aver finalmente trovato un ordine. Succede anche a Tarek, che pure aveva altro per la testa. La sua scelta è l’unico modo per poter rispondere ad una chiamata con un definitivo . Per smettere di arrangiarsi, e cominciare a lottare davvero, in una battaglia a termine, ben diversa dal quotidiano sbattimento.  Il racconto, così meravigliosamente arruffato e fuori fuoco nella prima parte,  si fa quindi netto ed essenziale, come a dire che si è giunti al punto, e non c’è tempo per tergiversare, né margine per tornare indietro.  Un’evoluzione che conduce dritta verso il centro del vortice. In un buco che ci inghiotte in un attimo, ma che prima ci stordisce con un’incantevole vertigine.

 

Les chevaux de Dieu ha concorso, come rappresentante del Marocco, al premio Oscar 2014 per il miglior film straniero. 

 

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