Regia di Nabil Ayouch vedi scheda film
Quando Hamid raggiunge il fratello minore Tarek al campetto in terra dove gioca a calcio coi coetanei, lo fa solamente per riportarlo a casa, spesso brandendo una catena con la quale picchiare chiunque osi mettergli le mani addosso. Nella bidonville di Sibi Moumen, a Casablanca, in Marocco, è il 1994 e lui è ancora un ragazzino, ma con il padre invalido, un fratello maggiore partito come soldato e l'altro menomato da un ritardo mentale, avverte già forte la responsabilità di dover aiutare la madre, sulle cui sole spalle graverebbe altrimenti il peso dell'intera famiglia. Ma Hamid non conosce alcuna legge se non quella della violenza, e ricorrendo sistematicamente alla prepotenza fa presto strada tra i bulli del quartiere.
Tarek, dal canto suo, sogna: di fare fortuna e diventare famoso come Lev Yashin, il leggendario portiere della nazionale sovietica, e di passare più tempo possibile accanto a Ghislaine, la sorella dell'amico Fouad. Cinque anni più tardi, però, Hamid sceglie per la sua ennesima bravata l'obiettivo sbagliato, finendo al fresco e privando la famiglia delle entrate garantite dalla sua attività di spaccio, ed il fratello dell'ombra dietro la quale s'era sempre nascosto. La separazione forzata dalla sua figura, tanto incontenibile quanto rispettata, serve a Tarek per distaccarsi dalle proprie illusioni ed imparare a badare a sé stesso e distinguere il momento della lotta da quello del compromesso.
Ma qualcosa di molto più intimo e irreversibile, durante i due anni passati in carcere, avviene invece ad Hamid, che - a ridosso di quell'11 settembre 2001 divenuto all'istante un momento cruciale nel corso della Storia - si ripresenta a casa profondamente cambiato nell'abbigliamento, nell'aspetto, nelle abitudini e nei modi. Pacato e silenzioso come non era mai stato, prende rapidamente le distanze dalla famiglia d'origine, di fatto rimpiazzandola con una confraternita con la quale condivide ogni cosa: la casa, il cibo, e soprattutto la preghiera. Divenuto un islamista radicale, forte della convinzione di non aver più alcun timore degli uomini ma solo di Allah, rende sia Tarek che il nucleo dei compagni più stretti partecipi della sua nuova visione del mondo.
Uniti ora in un credo comune, Hamid, Tarek e gli altri si lasciano indottrinare dall'emiro Abou Zoubeir, che insegna loro la devozione totale alla causa, li illumina sulla vacuità dell'esistenza terrena, e infine li investe del ruolo di martiri, che gli garantirà la vita eterna in cambio di una morte esemplare e "da eroi".
Tratto dal romanzo Les étoiles de Sidi Moumen di Mahi Binebine (e da lui stesso sceneggiato assieme a Jamal Belmahi), presentato a Cannes nel 2012 e successivamente portato con ottimi riscontri in diversi festival in giro per il mondo fino ad esser scelto come candidato per il Marocco all'Oscar 2014 per la categoria del miglior film straniero (senza tuttavia approdare nella cinquina definitiva), Les Chaveaux de Dieu è un film coraggioso e toccante, capace di trattare un tema delicato come il fondamentalismo religioso senza affondare negli stereotipi e senza indossare i paraocchi della propaganda politica (di qualunque stampo essa sia), anzi scegliendo la strada meno scontata di un agghiacciante racconto di formazione che spicca per la ricchezza delle caratterizzazioni e l'attenzione al dettaglio.
Quella scelta dal regista Nabil Ayouch (nato in Francia da famiglia marocchina) non è d'altronde una storia qualunque, facendo riferimento diretto all'attentato avvenuto a Casablanca il 16 maggio 2003, quando tra kamikaze e civili persero la vita 45 persone. Lungi dal volerli giudicare, Ayouch si erge a mero narratore e - con una freddezza che non è mai distacco - parte da lontano per dare una descrizione a tutto tondo di un contesto sociale che soffoca sul nascere ogni forma di ambizione, e all'interno del quale la necessità quotidiana di sopravvivere rende finanche l'infanzia un aggregato di avvenimenti brutali destinati a segnare per sempre.
In una realtà che non concede campo alla fantasia, nella quale ogni desiderio è una chimera e ogni speranza un abbaglio, il pensiero religioso trova terreno fertile proprio tra coloro che più sono incorsi in frustrazioni o torti, o che maggiormente avvertono il peso della totale assenza di prospettive: e sguazzando dentro questi vuoti esistenziali attecchisce e si estremizza, convogliando la rabbia, la delusione e i desideri di rivalsa di ciascuno contro un nemico comune e con un comune obiettivo, arrivando a trasformare la logica paradossale del martirio in un teorema assurdo ma, per chi lo elegge a propria ultima spiaggia, perversamente affascinante.
- Cosa penserà Ghislaine quando saprà che sono morto da martire?
- Che vuoi dire?
- Sarà triste? Sarà felice? Come la prenderà?
- Ce ne sono tante in Paradiso. Centinaia di Ghislaine. Migliaia...
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