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Infanzia clandestina

Regia di Benjamín Ávila vedi scheda film

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La recensione su Infanzia clandestina

di Kurtisonic
8 stelle

Interessante esordio del regista argentino B. Avila che prende spunto dal recente passato del suo paese per dare luce ad aspetti presi poco in considerazione se riferiti a quello specifico periodo, ma che invece in maniera trasversale e incontaminata dalla sentenza della storia e da posizioni ideologiche aprono scenari originali e quasi inesplorati. Nell’Argentina militarizzata degli anni 70, Juan poco più che bambino, è figlio di due oppositori al regime, dediti alla lotta armata e alla clandestinità. Dopo un necessario esilio che li separa, la famiglia si ritrova nel paese d’origine ancora sotto il dominio militare e tutti assumono un’identità falsa, Juan diventa Ernesto. Il film è strutturato come un romanzo di formazione lungo il quale il ragazzino non solo si misurerà con le prime determinanti avvisaglie amorose della vita, ma tenderà a riconquistare la sua vera identità che non significa riappropriarsi solo del nome, ma di cercare di vivere sensazioni, emozioni e sentimenti proprie della sua età. Avila evita le partigianerie e aggira gli schieramenti ideologici che la storia ha definito con sufficiente chiarezza. Il film è tratto da una storia vera, e viene rappresenta completamente dal suo interno. Il punto di vista predominante è quello del giovane protagonista il cui sguardo è obbligatoriamente proteso verso i suoi genitori, che appaiono, come i loro amici complici, confusi, irrazionali, nevroticamente poco maturi, ma di cui sente acuirsi la distanza come se il loro percorso di lotta accelerasse in direzione opposta alla sua crescita personale che contempla paure, sogni, dubbi e speranze. Lui si sente Juan, ma per i genitori esiste solo più Ernesto, di cui prevedono una vita da guerrigliero, da oppositore, da eterno ribelle a favore delle giuste cause. L’inizio del film è un mosaico di linguaggi facendo sfoggio quasi muscolare di un montaggio ritmato e avvincente, immagini, fumetti, disegni, fotografie, si alternano creando da subito un eccedenza di spunti che andranno poco alla volta esplorati nel corso della vicenda. Il gusto estetico per la contaminazione visiva se non supportata da una buona solidità interna si ridurrebbe ad un maquillage stilistico invece il contenuto modella la forma e la vicenda prende vigore e interesse. Il regista agisce sulla dicotomia composta dalla cruda realtà e la dimensione fantastica e sognante che connota l’età del protagonista che come detto però non ne ha facile accesso, Avila divide gli scenari ambientali, la casa, la scuola, la città sono la materia concreta della vita ma delimitano anche la sua falsa identità, per cui non si riconosce in nessuna di quelle componenti e tantomeno nei soggetti che le abitano. Ernesto diventa Juan nel rifugio buio ricavato nella casa per nascondersi, dove può liberamente immaginare, o al massimo sbirciare la realtà da una piccola fessura. Così come con il rapporto che sviluppa con lo zio, anche lui combattente ma con una visione della vita e del modo di lottare meno integralista e propenso ad ascoltare e a consigliare il nipote. Le complicazioni neanche a dirlo arrivano quando Juan s’innamora di una compagna di scuola e il loro rapporto non potrà che assumere significato fuori da ogni appiglio reale introducendo così anche quel tema da sempre dibattuto e conteso di un’educazione sentimentale, su come ricada sulla vita quotidiana, su quali effetti “devastanti” l’amore produca al cuore e all’anima ad ogni età e latitudine

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