Regia di Jaime Rosales vedi scheda film
L’inquadratura contiene la scia degli eventi. È lo spazio che rimane muto e deserto, prima e dopo il passaggio dell’azione. Il senso lo deve percorrere a lungo, per lasciarvi una traccia decifrabile. Senza la tenacia di osservare e la pazienza di aspettare, la vita si riduce ad una somma di fugacità slegate tra loro, come i momenti inanellati in maniera indefinibile dall’incoerenza del sogno. Il bianco e nero di Jaime Rosales è una lenta successione di abbagli, di visione colte distrattamente da una mente assorta, che non sa dove guardare, ed allora si posa a caso sui particolari più innocui e silenziosi. Il pensiero stanco non ha la forza di mettersi alla ricerca dei significati, e così si lascia cullare dagli effetti della luce, della prospettiva, della composizione geometrica e dal gioco delle risonanze, come nella contemplazione estatica di un progetto architettonico. Esiste un centro dell’immagine, ma questo è solo il temporaneo punto d’incontro delle linee di fuga. Il ruolo del protagonista è un concetto relativo, una condizione contingente, che dipende dal punto di vista assunto dall’obiettivo. Il soggetto ripreso in primo piano non è necessariamente il più importante, né il più espressivo, spesso non ha nulla da dire, e a volte parla senza che ci sia permesso di distinguere bene le sue parole, o afferrare l’argomento del discorso. Chiarezza e nebulosità si alternano, come nella vita vera, in cui i dubbi e le incertezze vanno e vengono, mentre la realtà ci sfuma, sotto gli occhi, per la fragilità della memoria o per il sonno che incombe. E così anche una storia drammatica e concreta può, a tratti, sfrangiarsi nell’allucinazione, in cui tutto accade all’improvviso senza un perché, tanto da sembrare impossibile. Nel medesimo luogo, convivono, nello stesso istante, chi sta dentro alla vicenda, e chi ne è fuori, messo lì a rappresentare l’universo in cui l’emozione del singolo è un dettaglio isolato, e inesorabilmente passeggero. In un cimitero, al termine di un tumulazione, una donna si accascia per il dolore mentre il camioncino dei necrofori fa manovra. Un uomo piange, seduto in disparte, mentre al di là della porta la gente chiacchiera e sorride. Il contorno è l’assurda noncuranza, l’estraneità disumana che, con la sua prepotente indifferenza, mortifica la pena individuale. La cosiddetta vita che va avanti è il treno del caos che corre, emettendo un fischio uniforme in cui le opposte tonalità si annullano l’una con l’altra. Il suono in sottofondo, la scenografia, le comparse, sono gli accessori teatrali che non c’entrano nulla con i fatti raccontati, eppure formano la cornice inamovibile che regge il quadro, assicurandogli una precisa collocazione nell’insieme. Due maestre si scambiano confidenze, in un’aula priva di alunni, mentre un loro collega, al piano di sopra, cammina avanti e indietro disturbando la loro conversazione. La solitaria angoscia di un padre è sommersa dagli schiamazzi dei bambini che giocano in un parco. La verità è una questione personale, sempre poco appariscente; può essere racchiusa in una figura ripresa di spalle, oppure può continuare, invisibile, oltre il bordo dello schermo, perché del filo logico si possono raccogliere solo spezzoni incompleti, che rimandano ad altro. L’assenza, d’altronde, è il problema che i personaggi di questo film si trovano a dover affrontare mentre sono in preda allo sgomento: sono sconvolti e spaesati, e dunque procedono in maniera disperata, nervosamente discontinua, maldestramente frammentaria. Le risposte sono nascoste da qualche parte, forse occorre scrutare negli angoli bui, spiare di sottecchi nelle zone d’ombra, per poterle scovare. Il margine è ristretto, ma forse è proprio lì che bisogna andare a vedere. C’è una grande superficie vuota ed anonima che sbarra la visuale, e chi, ponendo le domande, annaspa e soffre, è relegato al margine, oppure sospinto via, fino a sparire del tutto. La forza centrifuga è troppo intensa, quando si è costretti a ruotare intorno ad una terribile certezza. La piccola Celia è morta. Tutto il resto è lo sfilacciato corollario di quell’unico, sconfinato mistero. Sueño y silencio allinea i ritratti di un senso in divenire: sono gli scatti di una folgorazione che preme per interrompere il grigiore, però resta congelata nell’attesa. E intanto l’obiettivo del regista cerca, cerca, cerca, in mezzo alla massa indistinta, il cuore pulsante di quell’eterno perché.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta