Regia di Raoul Ruiz vedi scheda film
Un cinema da sfogliare. Le pagine del film spostano lo sguardo da un angolo all’altro del caleidoscopico universo della narrativa latinoamericana. Le vite dei suoi personaggi sono sempre stanze arredate di sogni, che giocano, indifferentemente, con le parole e le idee, non temendo quella mostruosità concettuale che è il paradosso. Lo scrittore cileno Hernán del Solar – autore del volume di racconti a cui si è ispirato Raúl Ruiz – vaga con la mente intorno alla solitudine, che è un vortice a contatto del quale la logica prende a girare all’impazzata, facendo del salto nel tempo e della fusione tra fantasia e la realtà i fondamenti morale della propria esistenza. Don Celso è operoso ma oziante, in partenza ma deciso a restare, sempre vivo eppure già morto. In lui si possono specchiare tutte le componenti del mondo, dall’amore all’odio, dalle favole infantili agli incubi della vecchiaia. È il centro dell’universo, stabile nella sua funzione di eterno riferimento, però animato da un’incessante energia creatrice, che non può fermarsi all’ovvietà, che deve sempre andare oltre, e rimettere ogni cosa in discussione. Il filo del discorso si ramifica, si annoda, si avvolge su se stesso per riprendere a ruotare in una nuova direzione, con altri traguardi, mai definitivi. La memoria partecipa alla sua danza con adeguata incoerenza, nel viavai dei ricordi che non si presentano tutti con la stessa intensità, e giungono solitamente inaspettati, a scombinare le carte, a riaccendere dolori magari solo inventati. Celso, il bambino di tanti anni fa, piange per aver perso un amico che non è mai esistito, quel pirata di nome Long John Silver al quale raccontava un sacco di orribili bugie. Intanto una parola, venuta da chissà dove, lo perseguita giorno e notte, costringendolo a cambiarne arbitrariamente il significato. Così Rododendro diventa il nome di un pesce, che, nella fonte letteraria originale, è fatto di legno ed è chiuso, come un veliero in miniatura, dentro una panciuta bottiglia di vetro. Intanto c’è un persona che ama Celso, senza speranza, mentre un’altra sta progettando il suo omicidio. L’uomo respinge la prima, e invece insegue ed aspetta la seconda, sapendo che l’irreparabile è già accaduto, anche se nessuno immagina cosa possa essere. Il nulla è vibrante di inquiete contraddizioni, se nella città di Antofagasta non c’è niente di interessante da visitare, a cominciare da quegli edifici moderni, che Celso, al contrario del suo interlocutore, non vede, proprio in virtù della loro presunta evidenza. Non c’è modo di scrivere un punto finale, e di ritrovarsi tutti d’accordo, dalla stessa parte della verità. La cecità ha bisogno di guardare al suo opposto, riconoscendone la follia, fatta di cose impossibili, che si impongono con prepotenza alla nostra pigra ragione. Dal suo primo cortometraggio, La maleta, a questa sua ultima opera, Raul Ruiz non ha mai smesso di porre l’accento sulla natura metamorfica ed intellettuale della visione, che riempie a suo piacere, in assoluta libertà, gli spazi lasciati casualmente vuoti dall’apparenza.
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