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Qui e là

Regia di Antonio Mendez Esparza vedi scheda film

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La recensione su Qui e là

di (spopola) 1726792
8 stelle

Aquì y allà di Antonio Méndez Esparsa è stato indubbiamente una delle piacevoli sorprese del Festival di Cannes 2012  dove si è aggiudicato (meritatamente) il Gran Premio della “Semine de la Critique”.

Acquistato per la programmazione in sala qui in Italia da una piccola ed eroica casa di distribuzione (la “Cineclub International”)dovrebbe finalmente approdare sui nostri schermi (il condizionale è d’obbligo in questi casi) il 12 dicembre prossimo, anche se non ci è ancora dato di sapere in quante copie, e soprattutto quali potranno essere le sale interessate alla proiezione di questo piccolo Davide stretto fra i troppi Golia che intasano e fagocitano il mercato con la loro spesso insulsa prepotenza.

E’ bene dire subito che siamo ancora una volta di fronte a una più che promettente opera prima (alla quale il mercato dovrebbe invece prestare molta attenzione e una visibilità ben più marcata) che tratta temi importanti della nostra attualità e che a mio avviso porta l’impronta e l’influenza  (rilevante e veritiera) di personali e dirette esperienze di vita del suo autore che è spagnolo di nascita (è nato a Madrid), ma che poi ha passato molti anni della sua esistenza prima negli Stati Uniti d’America, e successivamente proprio in Messico.

Un film di frontiera insomma il suo, partecipato e intenso, che si sviluppa con tonalità quasi da “documentario” e che fa di un minimalismo semplice e poetico alla stesso tempo, il suo principale punto di forza.

 

Il film narra la storia di un immigrato (Pedro) che dopo aver lavorato per molti anni negli Usa, affronta il viaggio inverso che lo riporterà nel suo paese d’origine (in Messico appunto, e più precisamente nel villaggio di Guerriero dove è nato e dove ha lasciato la moglie Teresa e le due figlie, la sua famiglia insomma, con la quale avverte l’impellente bisogno di ricongiungersi dopo una troppo prolungata assenza, pur sapendo che laggiù dovrà necessariamente tornare a fare il contadino, poiché la sua patria al momento non può certamente offrirgli qualcosa di diverso).

Con i soldi messi da parte grazie ai sacrifici del suo lungo e faticoso percorso di emigrato – un vero e proprio “forzato” esilio in una terra straniera così poco ospitale e molto diversa da quello che l’immaginario collettivo suggeriva di essere – coltiva anche l’ambizione di portare a compimento un segreto progetto, che è quello di riuscire finalmente a realizzare il sogno di mettere su una banda musicale che allieti le sale da ballo della provincia messicana.

L’entusiasmo iniziale è forte, ma ben presto l’uomo dovrà confrontarsi (e fare i conti) con la dura realtà economica e sociale che lo circonda, e non tutto ovviamente sarà “rose e fiori”, tutt’altro!!! perché nemmeno il raccolto particolarmente abbondante di una stagione può invertire quell’atavico stato di povertà che lo opprime, o risolvere i problemi che attanagliano tutti i diseredati del mondo, troppo spesso attratti dal fallace richiamo delle sirene di un Eldorado (im)possibile in un altro paese al di là del confine che rimane imperioso e prepotente fino a rendere ancor più precaria e sconfortata la loro esistenza (il di qua, appunto).

 

Seguendo le quotidiane vicende (e i travagli) del protagonista, lo spettatore è quindi chiamato (quasi “costretto” direi) a condividerne gli imbarazzi e le difficoltà non solo nel sociale, ma anche all’interno della propria famiglia, perché anche in quel piccolo e privato microcosmo, deve commisurarsi con i bisogni e le necessità “delle sue ragazze”, soprattutto quelle delle figlie, nel frattempo cresciute più di quanto lui potesse immaginare: emblematica in questo senso, la scena che li vede tutti riuniti a tavola per consumare insieme la prima colazione dopo il suo ritorno, e l’uomo si trova di fronte all’imbarazzato silenzio delle due giovani donne che praticamente non lo conoscono (e certamente non lo riconoscono, perché la sua presenza per loro è solo un’eco troppo lontana  per restare tangibile anche nel ricordo) che sembra quasi vogliano fargli pagare in questo modo, la sofferenza che hanno dovuto patire per i lunghi anni della sua assenza dalla magione.

Un ritratto insomma empaticamente sincero di una delle tante comunità costrette a convivere con il fenomeno dell’emigrazione (purtroppo sempre più universale, poiché le problematiche che qui vengono portate in primo piano sono tutt’altro che circoscritte proprio perché viviamo in un mondo ormai alla deriva dove la povertà e la necessità di provare a cercare un futuro “qui o là”, sta dilagando) che viene per altro molto spesso liquidato con troppa superficialità e una buona dose di egoismo nel minimizzare e non tenere conto della tragedia che invece si porta quasi sempre dietro, non solo per le difficoltà e i pericoli che devono essere fronteggiati giornalmente, ma anche e soprattutto perché si è obbligati a lasciarsi alle spalle gli affetti e a rinunciare alle radici della propria storia.

Ovviamente però (e per fortuna) qui non c’è soltanto una visione in negativo poiché il film ci dice anche che se c’è vero amore, è proprio nel calore familiare che si ritrovano - persino nei momenti più bui e disperati - le spinte necessarie per andare avanti (e finanche per coltivare le proprie ambiziose aspirazioni).

E’ infatti da lì dentro, dal desiderio di “ritrovarsi un giorno” che si consolidano e crescono le colonne portanti della speranza durante gli interminabili anni della “deportazione”, ed è ancora dalla famiglia che si può attingere non solo per trovare un adeguato nutrimento che sani le ferite e faccia superare il trauma della prolungata assenza al momento del rientro a casa, ma anche per recuperare un rapporto smarrito e  riacquisire - nonostante le condizioni avverse e lo sconforto – l’energia necessaria per ripartire, e tentare così di andare avanti ad ogni costo e con determinazione, facendo perfino progetti per il futuro.

In Aquì y allà questa spinta speciale, questa “propulsione”, la si individua proprio nello straordinario rapporto che unisce Pedro alla moglie Teresa, tutt’altro che sopito o messo in discussione dai troppi anni della lontananza e dalle controversie giornaliere. Se lei è ancora profondamente innamorata del suo Pedro e lo dimostra chiaramente in ogni suo atto (anche se nel profondo rimane dubbiosamente sospettosa sul fatto - che ha probabilmente messo in conto - che il marito possa avere avuto un’amante durante la sua prolungata permanenza negli USA), lui è altrettanto pronto ad affrontare qualsiasi ulteriore sacrificio (che sarà inevitabile) soprattutto nel difficile momento della nascita della terza figlia (che è sempre il giusto e inevitabile pegno da pagare se si è ancora in età fertile, ad ogni ritorno a casa dopo un periodo troppo lungo di astinenza) salutata con gioia infinita, ma che amplificherà di nuovo e ulteriormente la precarietà del vivere quotidiano.


Potremmo chiamare nostra figlia Luz” (Luce), dice Pedro a Teresa mentre stringe la terzogenita, quasi in un ultimo appello alla speranza (che non basta ovviamente per guarire le fratture dell’ingiustizia in una società sopraffatta dal Dio denaro e dallo sfruttamento) e che diventa solo un ipotetico - momentaneo - lieto fine sufficiente soltanto a dare una pausa di ristoro tra tante amarezze, a un migrante  il cui ritorno a casa è purtroppo destinato ad essere momentaneo (se non lui, qualcun altro), poiché ai “dannati della terra” non è purtroppo dato in questo mondo di uscire dall’inferno per approdare definitivamente in paradiso, ed è forse per questo che il fascino di ciò che si spera di trovare al di là della frontiera, rimane prioritario e prepotente (lo si evince dai dialoghi dell’uomo con la ragazza che “sogna a sua volta l’America”, che conferma l’interscambio anche dialettico fra il qui e il là, o meglio ancora,  fra l’agognata speranza di un avvenire migliore e il dover mettere in conto la perdita di quello che obbligatoriamente ci lasciamo invece alle spalle, ricordi compresi, tematica che in questa pellicola è sempre prepotentemente in primo piano a fare da bilanciatore crudele delle cose.

Un film fatto davvero di molti “sussurri” e poche “grida” che ha l’afflato della poesia, realizzato da un regista che sa di cosa parla e lo dimostra (a partire da una sceneggiatura da lui stesso scritta che va diritta al nocciolo della questione).

Interessante anche la fotografia, priva di svolazzi  e di compiacimenti che adegua la sua forma alla “sostanza” del racconto e menzione speciale per gli interpreti (Pedro De los Santos, Teresa Ramírez Aguirre, Lorena Guadalupe Pantaleón Vásquez, Heidi Laura Solano Espinosa, Néstor Tepetate Medina) tutti in perfetta sintonia con i loro ruoli.

 

Un’opera da non lasciarsi sfuggire dunque, per lo meno per chi avrà la fortuna (a partire da quell’ipotetico 12 dicembre che speriamo diventi concreta realtà) di trovarsela “a tiro di schioppo” o nelle immediate vicinanze.

 

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