Regia di Apichatpong Weerasethakul vedi scheda film
Mekong Overlook Hotel.
"Il cinema è come un fantasma, non esiste nel presente, è solo l’ombra di quello che accade. E’ catturare il passato. Non esiste ma in contemporanea è qualcosa di molto solido, perché cattura sull’obiettivo tutto ciò che è morto. Bisogna distruggere l’idea di cinema come istituzione, oggetto reale, per sperimentarne il potere, la benedizione, cercando di catturare il processo stesso di creazione dell’illusione. Il cinema è una cosa piccola, di così poca importanza. Ma a me interessa molto lavorare con questo strumento poco importante per riflettere su qualcosa di semplice e profondo allo stesso tempo: la vita è così piccola." (Apichatpong Weerasethakul)
Cinema extracorporeo da microcosmo, in cui lo spettro d'(in)azione narrativo si svolge in questo Overlook Hotel thailandese, in cui la "REDRUM" viene capovolta [un hotel di fantasmi infestato dagli umani?] palesando un animismo a forza centripeta e non più centrifuga, assumendo una funzione immersiva e non più emersiva, ospitando stavolta il passato dei fantasmi e non più i fantasmi del passato. Struttura sciamanica e commemorativa, nella quale, tra l'altro, ogni effimerità umana e/o umanoide risulta dilatata o, meglio, eternizzata, per via della ritualità, reiterazione della reminiscenza, in questo (non)luogo misterioso, ritratto a modo di stazione sospesa nel vuoto storico, antropologico, temporale, come inattuabile punto d'incontro tra regno filogenetico e mondo fantasmatico, centro gravitazionale in cui convergono nostalgie deambulanti. (il) Mekong Hotel è sito archeologico nel quale (r)incontrarsi senza appuntamento. Il Cinema di Weerasethakul concede, offre uno spazio, ospitando assenze e presenze, inglobando passato e presente, inquadrando il tutto con sensitività pneumatica. Il regista thailandese, con questa pellicola, dà voce ed introduce ad un pragmatismo ectoplasmatico di impronta anamnetica, in cui entità e verità mnemoniche si manifestano in un Reale nel quale il metafisico diventa confessione tangibile e testimonianza escatologica di negazioni filmiche e fallimenti sociali, raccolti all'interno di un limbo cementato, simboleggiante un'eterotopica fermata situazionale in cui stagnano, appunto, i sopracitati racconti dii sottrazioni politiche, esistenziali, artistiche, etc.
Nel film, i vari protagonisti mangiano la carne (come la tigre in Tropical Malady [Sud Pralad; 2004]), la quale rappresenta una sorta di stargate organico che collega il mondo fisico a quello metempirico. La suddetta azione permette ad essi di riconoscersi, appunto, attraverso gli altri o, meglio, tramite l'Altro, e di perpetuarsi fino a diventare un tutt'uno con i fantasmi, anzi, diventando loro stessi i fantasmi, ovvero entità che smettono di esistere per poter, comunque, in-esistere. Illusioni, apparizioni orizzontali, intrappolate in questo empireo di calcestruzzo, le quali, come segno del loro passaggio, rilasciano strascichi memoriali, echi di voci familiari. Infatti, ad esempio, durante il minuto 24:23 viene mostrato un letto vuoto sul quale c'è una macchia, scia di sangue, che raffigura il passaggio di tali esseri. Nel finale - controcampo definitivo e liberante dell'intera filmografia del regista - avviene come un corto circuito percettivo, in cui il quadro filmico, nella sua totalità, sembra invitare lo spettatore a riflettere, a vedere, a (ri)dare un senso (improbabile) a ciò a cui ha assistito finora. Il pubblico osserva, si lascia cullare, trasportare (e stimolare!) da una calma formante e illuminante, nel quale il suo ruolo viene ri(n)definito per via dell'impossibilità di catturare un'Immagine destrutturante, ovvero in costante mutamento, che fluisce, appunto, come l'acqua, come il fiume. Come la vita.
Mekong Hotel è un'opera evanescente, inafferrabile e atemporale, nonché la più ermetica ed astrusa di Apichatpong Weerasethakul. È un film stregante. Il suo lavoro più etereo e, soprattutto, liminale; quello che più degli altri ritrae la soglia che delimita due mondi differenti ma imprescindibili l'uno dall'altro, ovvero quello dei "defunti" e quello dei "vivi". Una pellicola che - lo stesso discorso vale per i suoi protagonisti - rappresenta la metempsicosi della memoria, e Joe è l'ultimo che ancora dipinge rupestre in caverne di celluloide oscure, sotto la luce di tremolanti fiaccole, per far sì che le immagini vengano ricordate, e si possa ancora camminare coi fantasmi. E' un Cinema primitivo, medianico, evocativo, fotosensibile, che descrive questo etereo gioco, raccontato con un linguaggio infantile, fanciullesco (inteso come puro, incontaminato), tra vivi e morti, in una dimensione atemporale.
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