Regia di Apichatpong Weerasethakul vedi scheda film
MUBI
Il cinema di Apichatpong Weerasethakul è perennemente popolato dalle anime erranti di fantasmi che agiscono più obbedendo ad istinti ineluttabili che a vera malvagità.
In Mekong Hotel la forza maestosa della natura e la potenza degli spiriti condizionano gran parte del vivere umano e degli intrecci interpersonali tra viventi.
Sul portale per cinefili MUBI, è possibile recuperare un film sperimentale, ibrido e contemplativo come Mekong Hotel, ottavo, impenetrabile ma affascinante film del talentuoso cineasta thailandese Apichatpong Weerasethakul, noto ed amato, ma anche temuto, per i suoi misteriosi Tropical Malady e Lo zio Boonmee che si ricorda delle vite precedenti.
Fino al suo ultimo, magnifico, Memoria, del 2021, Premio della Giuria al Festival di Cannes di quello stesso anno.
Il film, lungo poco più di un’ora, è apparso per la prima volta al Festival di Cannes del 2012, nella sezione dedicata alle “proiezioni speciali”.
LA STORIA
Presso un hotel affacciato sulle placide ma imponenti rive del fiume Mekong, tra il sottofondo di una dolce musica prodotta da un tipico strumento a corde locale, alcune coppie di individui, unite tra loro da sentimenti, parentele, legami differenti, si confrontano sulla bella terrazza che si affaccia tra le placide acque del grande corso acquifero.
Una coppia di giovani amanti si confronta prima di uscire da un locale; un uomo sopraggiunto per seppellire i resti del proprio amato cane, sbranato da uno spettro-donna, nel luogo natio, incrocia una bella ragazza di cui si innamora; una madre vampira, scampata in gioventù a un incontro con uno spettro locale, si rapporta con la figlia che non può più sopportare i sacrifici umani e animali che la madre è costretta a compiere per sopravvivere alla sua fame perenne.
LA RECENSIONE
-“Dov’è la tua casa?
-Distante. Vedrai che non si allagherà.
-Non stare sempre a credergli: l’acqua non ascolta.
-A chi darà ascolto?
-Attento bimbo, l’acqua ti andrà in bocca”.
Nell’hotel tranquillo e addossato sulle sponde ora placide, ora decisamente più pericolose e instabili, del fiume Mekong, l’arrivo di alcuni clienti umani sembra scuotere il torpore che teneva in uno stato di relax quasi perfetto gli spiriti, conosciuti come Pot, che il fiume porta con sé, insieme ai trochi e a tutti i residui solidi che il fiume trascina lentamente da valle al mare.
L’orrore della dipendenza dalla carne umana o animale, viva e strappata dalle viscere, è solo relativo e anche quando la contemplazione nei confronti di chi non è potuto sopravvivere alla presenza degli spiriti (ad esempio il cane di uno tra i protagonisti), appare sincera, si respira più un sentimento di quieto appagamento e rassegnazione, che la disperazione di aver perso definitivamente qualcosa di caro.
Complici, probabilmente, le vite che seguiranno, e che permetteranno ad ogni individuo di tornare a far parte almeno del regno animale, sotto forma di altri esseri viventi.
Apichatpong Weerasethakul torna presso la location in cui doveva concentrarsi l’ambientazione di un lungometraggio, la cui ultimazione ha poi fatto sì che il progetto tramontasse. E dirige al suo posto un film ibrido tra canovacci di sceneggiatura e improvvisazione documentaristica, legandosi l’uomo sempre in modo più fitto alla potenza superiore di una natura non sempre benigna, ma quasi sempre giusta e imparziale.
Mekong Hotel, un mediometraggio della durata di un’ora, è straniante e magico insieme, evocativo non meno dei film precedenti e delle opere successive del premiato e grandissimo cineasta thailandese, nella stretta interconnessione tra il mondo fragile e caduco del reale, e quello eterno e infinito che raccoglie le anime e talvolta le rende succubi dall’agire degli spiriti che si aggirano quietamente nell’aria.
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