Regia di Carlos Reygadas vedi scheda film
“Fare buone o cattive azioni agli altri o a se stessi è qualcosa che gli adulti fanno e che i bambini fortunatamente non possono comprendere. L'intero film riguarda molto come quest'idea ci influenzi e su come voler organizzare la vita in un modo così aggiustato e moralistico ci impedisca di essere liberi.”
Juan (Adolfo Jiménez Castro), persona presumibilmente agiata e proveniente dalla città, vive nel Messico più rurale e tradizionalista con la famiglia, costituita dalla moglie Natalia (Nathalia Acevedo) e dai due figli piccoli Eleazar (Eleazar Reygadas) e Rut (Rut Reygadas).
I bambini possono godere di ciò che il contesto offre, esprimendo la gioia e la spensieratezza che spettano loro, ma altrettanto non si può dire dei loro genitori: Juan soffre di violenti scatti d'ira che sfoga su uno dei suoi cani e manifesta una chiara insoddisfazione sessuale, che non riesce a risolvere mediante gli inefficaci dialoghi con la moglie. Rivòltosi agli alcolisti anonimi per affrontare la dipendenza dalla pornografia online, Juan vi conosce Siete (Willebaldo Torres), un ragazzo schietto ma dal passato difficile.
Succeda quel che succeda in questo spicchio di Messico così lacerato, il mondo andrà comunque avanti e dopo le tenebre spunterà una luce. O forse il contrario. Ma il rugby nei college inglesi continuerà…
Al Festival di Cannes 2012, la cui giuria era presieduta da Nanni Moretti, è stato fischiatissimo e premiato per la miglior regia: “Post Tenebras Lux”, in estrema sintesi, divide dal principio.
È un film in qualche modo semi-autobiografico – seppur ritenuto dal suo autore assai meno personale del predecessore “Luz silenciosa”, nonostante il ricorso agli interni di casa sua e ai suoi figli - che si contraddistingue per la pressoché totale e deliberata inintelligibilità, a cui contribuisce anche un montaggio più contorto del solito: se ogni film di Reygadas consta di venti sequenze e spiccioli, “Post Tenebras Lux” sposta continuamente l'azione (?), slegando del tutto le scene tramite ellissi temporali e spaziali, tramite cui si innestano allenamenti di rugby (sport praticato dal regista in gioventù), ricevimenti eleganti in anni futuri e saune orgiastiche di dubbio gusto. Tutto sognato, immaginato, proiettato. Chi può dirlo?
Reygadas si ostina superbamente a compatire i suoi detrattori, sostenendo come questi vogliano capire un'arte non dissimile dalla musica: ma il suo cinema d'immagini sconta una vistosa gratuità e una certa difficoltà nell'apprezzarne una visione d'insieme che vada al di là del fascino visivo di singole sequenze. Se da un lato non capire un film (o una qualunque opera d'arte) non significa certo che questo faccia schifo, dall'altro non significa nemmeno che sia geniale. Lui insisterà col ribadire che il suo cinema richiede degli sforzi agli spettatori, ma tant'è.
“Riguarda la situazione nel mio Paese, dove la gente viene uccisa in crimini legati alla droga, dove le teste vengono mozzate, dove la terra sanguina… […] Riguarda un bisogno di rinascita, il sesso, il vivere vicino agli animali che ci sono stati a fianco fin dagli inizi e ora ci siamo allontanati da essi. Riguarda i sogni e come ci relazioniamo ai nostri ricordi o al futuro immaginato nella nostra mente.”
Intendiamoci, l'incipit, nonché diverse altre scene in cui lo zampino di Alexis Zabe dispensa cromatismi intriganti, è un qualcosa di stupendo: giocato su toni contrastanti di verde e viola, il calare delle tenebre carica di inspiegabile tensione uno scenario sconosciuto, segno per me di un talento registico potenzialmente (e in altre occasioni) clamoroso. Poi subentra il celeberrimo diavoletto fluorescente con scatoletta degli attrezzi e attributi sessuali in bella vista (presente perfino nel trailer): una manifestazione che si è prestata alle interpretazioni più arbitrarie e fantasiose, che esteticamente è kitsch come poco altro e che quantomeno segna il primo ricorso in carriera per Reygadas all'animazione computerizzata.
Già da questi primi minuti si può notare l'impiego per le riprese esterne di una lente sovrapposta a quella principale: un espediente appositamente ideato, che non solo costringe a focalizzarsi sul centro dell'immagine (e fin qui il richiamo sarebbe ad Altman e al suo poco riuscito “Quintet”), bensì sfoca e raddoppia le immagini ai lati. Un effetto voluto. “Le cose non sono quello che sembrano” - dice Reygadas. Un effetto a lungo andare sgradevole, ben oltre l'efficacia che il suo ideatore vorrebbe attribuirgli.
Dai dialoghi di “Post Tenebras Lux”, posto che la loro rilevanza è chiaramente minima, emergono temi quali l'incapacità di ottenere appagamento sessuale, la violenza, la distanza fra esseri umani, l'innocenza dell'età infantile e la purezza del guscio familiare. Il tutto in un Messico diviso, a suo tempo colonizzato dagli occidentali e perciò “infettato” dal loro modo di concepire la vita – che il regista nativo di Città del Messico ha avuto modo di provare sulla sua pelle per poi rigettarlo. Un Messico spurio, modernizzato, “educato”, ma sempre ancorato a tradizioni ancestrali (forse da qui il titolo in latino?).
Carlos Reygadas ce l'ha dichiaratamente a morte col cinema inteso come letteratura illustrata e paragona “Post Tenebras Lux” a un dipinto espressionista, ma qui le sue soluzioni estetiche e le sue giustapposizioni, tanto compiaciute quanto sterili, convincono assai di rado, sfociando in talune occasioni nel ridicolo.
“Non sai descrivere cosa riguarda il mio film? Eccellente!”
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta