Regia di Carlos Reygadas vedi scheda film
Una bambina, sola, in mezzo alla natura, tra cani, cavalli e mucche al pascolo. Sorride, gioca. Ma poi, lentamente, cala la sera, gli animali se ne vanno e lei rimane lì a chiamare la mamma, mentre il buio la inghiotte, un nero sempre più nero, squarciato da lampi e tuoni. Noi siamo con lei, soli come lei, ascoltiamo i rumori, percepiamo l’odore della terra, proviamo la gioia più innocente e la paura più radicale. Dieci minuti di cinema potenti e inquietanti come non se ne vedevano da tempo. Stanno all’inizio dell’ultimo film di Carlos Reygadas, regista messicano pressoché sconosciuto a chi non frequenta il Festival di Cannes, che l’ha scoperto e coccolato negli anni, dalla rivelazione Japón alla Quinzaine des Réalisateurs nel 2002 fino al premio alla regia per questo Post Tenebras Lux nel 2012, passando per Battaglia nel cielo (2005) e Stellet Licht (2007, Premio della giuria). Le sue storie estreme, il simbolismo, le provocazioni (sessuali), l’esasperazione stilistica, hanno sempre diviso spettatori e addetti ai lavori. E così è successo anche stavolta, anzi di più. Perché è facile ammirare i primi estatici dieci minuti. Ma poi arriva un flusso di immagini e pezzi di storie disarticolate. Un diavolo-caprone rosso fosforescente, un’orgia triste in una sauna tra le sale Hegel e Duchamp, una coppia che litiga, una rapina, una partita di rugby, Tolstoj e Neil Young, alberi che cadono e teste che si staccano, tra immagini sfocate e sdoppiate verso i bordi. Le bambine protagoniste sono le figlie di Reygadas e quei luoghi selvatici sono quelli in cui vive il regista. C’è una coppia benestante che si è trasferita in campagna e c’è chi si arrangia per vivere. Violenza, colpa, natura vs. civiltà, bellezza che toglie il fiato, vuoto incolmabile, e noi sospesi tra la luce e le tenebre, come la bambina del prologo. A Cannes questo film, col suo titolo biblico-calvinista e l’attitudine sciamanica, generò in molti sconcerto e irritazione, per l’ermetismo, per la mancanza di qualsiasi buona creanza narrativa, per le ambizioni altissime di un autore che ha sempre dato del “tu” a Tarkovskij e Dreyer, Antonioni e Bresson. Tutto vero. Ma di fronte alla forza di certe immagini, alla libertà espressiva, alla sfida (disturbante) al buon senso, viene da dire: avercene!
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