Regia di Sergio Leone vedi scheda film
Secondo capitolo della celebre “trilogia del dollaro”, secondo appuntamento con l’epica leoniana. Anche qui troviamo personaggi di tutt’altra nascita che quella classica americana, e troviamo situazioni e motivi che se hanno qualcosa di classico lo perdono nel loro nuovo significato. Qui abbiamo un uomo roso dal dolore e dalla vendetta che cerca El Indio, il responsabile della morte della sorella. Questo uomo si incontra e si scontra con un altro uomo, un bounty killer, che cerca anche lui El Indio, ma solo per intascarsi la taglia. Già qui abbiamo la presentazione della dramatis personae del film, ognuna con il proprio carattere, il proprio abbigliamento, il proprio linguaggio, la propria direzione e la propria origine. Lee Van Cleef, che s’aggiunge al già conosciuto duo del precedente film, nasce dall’eleganza del sud, dalla gentilezza dell’uomo sofferente, di nerovestito, che incarna il mito dell’orgoglio sureño e della fatalità. Mai volto fu più azzeccato, dando a Van Cleef la possibilità di diventare il grande attore che oggi tutti conoscono. Il Monco di Clint Eastwood nasce ovviamente dallo straniero del primo film, il Joe che si mette tra i Baxter e i Rojo per guadagnarci qualcosa, solo che in questa seconda sua avventura accellera il suo carisma picaresco, tipico di tutto lo spaghetti-western, e diventa divertente e divertito, maschera cinica di un’ironia sottile, a suo modo fatalista e lapidaria da fare il paio con il compagno di ventura, il Mortimer di Van Cleef. Ultimo arriva il grande cattivo: Gian Maria Volontè e il suo celebre El Indio. Se Clint Eastwood è stato il prototipo dell’antieroe del western all’italiana, Van Cleef il prototipo dell’eroe solitario, sepolcrare, umbratile, sofferto e grave, e se in futuro con il Tuco di Eli Wallach si crea l’archetipo per il messicanaccio sporco, furbo e divertente, con El Indio di Volontè si crea definitivamente il cattivo per eccellenza dello spaghetti-western. Folle, pericoloso, instabile, lunatico, violento e ambiguo (i riferimenti alle droghe e all’omosessualità non sono mai stati provati né smentiti), il modello di Volontè sarà poi perpetuato in altri film e con altri volti. Tra i tanti che lo porteranno a performance di grande qualità vanno citati doverosamente Klaus Kinski e addirittura il fratello di Volontè, Claudio Camaso, da molti considerato invece inferiore alla grandezza del primo. Tre personaggi, quattro col prossimo Tuco, che sono poi i modelli da cui altrettanti geniali e creativi registi trarrano i loro nuovi antieroi. Il Django di Franco Nero eredita il distacco e la lapidarietà di Eastwood così come la funeralità e la misteriosità di Van Cleef. I messicanacci di Fernando Sancho, Roberto Camardiel ed Eduardo Fajardo quando li fa, arrivano tutti dal Tuco di Wallach. Il Cuchillo di Tomás Milian, a parte il nome che ha già Aldo Sambrell in “Per Qualche Dollaro in Più”, ricorda obiettivamente il messicanaccio sporco, furbo e divertente della tradizione leoniana. Anche Terence Hill, prima di essere Trinità, assumeva le pose di Eastwood e di Franco Nero, e non per suo demerito, bensì perchè questo richiedeva la produzione del film. Ci troviamo così oggi ad avere chiara la genesi dei tipi, quelli principali e seminali, che hanno creato il western all’italiana.
Tra questi attori di grande caratura, appaiono in questo secondo western di Sergio Leone, pure altri nomi che in seguito diventeranno emblematici nel genere di casa nostra. Luigi Pistilli, Aldo Sambrell, Frank Braña, Mario Brega, Benito Stefanelli, Roberto Camardiel, José Terrón, Lorenzo Robledo, José Canalejas, Antonio Molino Rojo, Ricardo Palacios e pure lo scenografo Carlo Simi in un piccolo cameo. Ma tra tutti vorrei puntare il dito soprattutto su due nomi che, uno ai suoi esordi e l’altro già navigato ma non ancora celebre, sarebbero poi divenuti non solo due volti insostituibili degli spaghetti-western, ma due dei miei spagoattori preferiti. Il più navigato dei due (con già ben 40 film alle spalle) è l’austro-polacco Klaus Kinki che aveva già partecipato al western europeo in due produzioni tedesche. Il secondo, al suo esordio, è Peter Lee Lawrence, attore tedesco, che prima di “Per Un Pugno di Dollari” è accreditato giusto in “Io Uccido, Tu Uccidi”, commediola a episodi con Franco e Ciccio. Entrambi diventeranno, uno il grande villain psicopatico, luciferino, ambiguo e violento di tanti western, horror e thriller nostrani, l’altro incarnerà il giovane e bello e inquieto pistolero di molti titoli famosi. Il primo muorirà per un attacco di cuore a Lagunitas, in California, il 23 novembre 1991, dopo aver detto di no a Steven Spielberg per il ruolo del cattivo generale tedesco di “Indiana Jones e l’Ultima Crociata”, mentre il secondo si sparerà un colpo in testa il 18 aprile del 1974 per un tumore alla testa che lo aveva condannato ormai da tempo. Entrambi in questo fim di Leone hanno un breve ruolo, ma a differenza di Peter Lee Lawrence che appare solo nei flashback che ricostruiscono la morte della sorella di Lee Van Cleef, Klaus Kinski come Gobbo della banda de El Indio si ritaglia dei momenti di tutto rispetto. Il duello di sguardi e di tic nervosi tra lui e “Naso di Corvo” Lee Van Cleef è di una tensione strepitosa, costruita come solo Leone poteva costruirla: tutta su primi piani e primissimi piani che claustrofobizzano l’ambiente e lo spazio filmico. Complice pure la musica di Ennio Morricone. Il loro confronto avrà il suo epilogo nella taberna di Agua Caliente, ovvero Los Albaricoques, sotto gli occhi dell’intera banda.
Ma non solo i personaggi e i loro performer rendono grande questo film. Come tutti i film di Leone metà del loro successo è dovuto all’idea stessa del film, allo stile nuovo del regista, alle maestranze italiane che “rifanno” il western sotto casa. L’altra metà, ovviamente è dei persoaggi che essendo figure nuove, sovversive, altre, rispetto la tradizione, già da soli sanno dare una piega diversa al film. Per esempio, prima di Sergio Leone i duelli non erano così caricati, così sacralizzati, resi epici e religiosi come se spararsi e ammazzarsi fosse come recitare un salmo. Leone entra con prepotenza negli schemi del western e vi apporta, innestandoli con forza, tutta una serie di inclinazioni culturali se non proprio italiane almeno europee. Il western americano dopotutto nasce su una terra calvinista, quello europeo su una terra cattolica. Pur con qualche suggestione uguale, le due sono culture opposte, che non possono prevedere la stessa risoluzione degli irrisolti esistenziali, che siano politici, sociali o sessuali. Ecco che l’omosessualità dell’Indio è più appariscente, senza essere davvero comprovabile, di quella latente di Anthony Quinn in “Warlock” o di Paul Newmann in “Furia Selvaggia” o degli interpreti de “Il Mio Corpo Ti Scalderà” di Howard Hughs. Allo stesso modo, i tanti western pesudo-politici di matrice USA, nulla sono rispetto ai nostri: “Quién Sabe?”, “Il Mercenario”, “Requiescant” e “Tepepa” sono tutta un’altra cosa. Impossibile quindi credere che dai personaggi, ai motivi, agli ambienti fino al linguaggio adottato da Leone, non giochi forza una spinta diversa. Che nella sua diversità progetta e realizza una visione davvero fantastica e sognatrice del western. Gli americani facevano film storici, i nostri sono delle vere creazioni artistiche dove il significante è il Mito che si perpetua. Potremmo ben dirlo senza paura di cadere in una cialtronata. Come leggere altrimenti una scena, funzionalmente inutile, benché aiuti a conoscere i due personaggi principali, come quella notturna dove Clint e Lee Van Cleef si sparano ai cappelli. Anche il colpo alla banca di El Paso, quanto è inverosimilmente dilatato? Anche inutilmente, direbbe Budd Boetticher o Dalmer Daves o William Wellman (già Sam Peckinpah sarebbe di avviso diverso). Non c’è scena o sequenza che non si rifaccia a un luogo dell’anima, allora poco conosciuto, ma che dopo l’exploit dello spaghetti-western è diventato il primo paradigma per leggere, o meglio ri-leggere, la frontiera, i suoi Miti e i suoi Eroi. Da noi suonano un po’ come demitizzati e antieroi, ma la materia dei sogni è la stessa. Tutto: la sequenza iniziale dove Van Cleef bracca a Tucumcari il bandito di José Terrón, la fuga dell’Indio dalla prigione e il seguente delitto della famiglia di Lorenzo Robledo, l’incotro-scontro tra Clint e Van Cleef, tra quest’ultimo e il Gobbo, le beccate tra i due pistoleri, le loro battute, le loro sentenze, e poi la rapina alla banca, la fuga al palmeto, l’arrivo ad Agua Caliente, il covo e gli inganni dell’Indio, le morti e il duello finale. Tutto ci dice come il nostro western sia diverso, poggiando su e rifacendosi a spinte culturali differenti che lo mutano in uno specchio in cui riflettere coi segni dell’epopea western i codici del Mito, codici riconoscibili dal popolo e dal popolo perpetuati nella vita di tutti i giorni, anche se il nostro cortile non è affato il deserto di El Paso.
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