Regia di Moussa Touré vedi scheda film
Che cos’è il mare. Un luogo sconosciuto a tutti, e che tutti accoglie con la stessa paterna freddezza. Uno sconfinato grembo in cui trovano comodamente posto tutti i desideri impossibili, i sogni smisurati, le speranze folli. Attraversarlo in cerca di fortuna significa affrontare la madre di tutte le sfide, quella in cui si mette in gioco ogni cosa, compresa la propria vita, in cambio di un’improbabile felicità di cui, peraltro, non si può prevedere la reale natura. Un gruppo formato da alcuni uomini e una donna salpa dalle coste africane, a bordo di una grande piroga di legno. Il viaggio è uno di quelli clandestini e pericolosi, che pure si pagano in anticipo, e a caro prezzo, accettando le scomodità, la fame, la sete, il freddo, il rischio di non farcela e rimanere per sempre sepolti tra i flutti. Baye Laye, un giovane senegalese si ritrova, suo malgrado, a capo di quella spedizione. Il motore è vecchio ed è stato riparato alla bell’e meglio. La benzina è appena sufficiente. Il tempo sarà buono per i primi due giorni, dopo non si sa. Eppure i passeggeri non vedono l’ora di partire, pronti a sopportare ogni disagio, pur di realizzare il miraggio del benessere e di un futuro migliore in Europa. In quell’aspirazione, che, pur con varie sfumature, accomuna tutti gli occupanti di quel primitivo mezzo di trasporto, non c’è retorica né ingenuità. V’è solo la convinzione, maturata nella durezza di una vita spietata, che la strada difficile sia sempre la più giusta, quella lungo la quale la mano di Dio ti accompagna con grande benevolenza. Una vedova si sacrifica per i suoi bambini, dopo che suo marito si è imbarcato, e non ha più fatto ritorno. Un pescatore che ha perso una gamba conta di racimolare i soldi per comperarsi una protesi. Un ragazzo vuole andare lontano per non dover seguire le orme del padre, e potersi dedicare alla musica. Qualcun altro invece bada solo, cinicamente, al guadagno derivante da quel commercio di carne umana. Tante anime diverse sono unite dalla stessa determinazione, che, insieme all’amarezza per un destino irrimediabilmente avverso, crea tra loro un forte legame fondato sulla solidarietà e sulla tolleranza. Un piccolo spaccato di un mondo umiliato e ferito si mostra prima diviso, poi supera le differenze e finisce per fremere della stessa ansia e piangere per lo stesso dolore. La sfortuna genera uguaglianza, anche quando lo spazio vitale è angusto, precario e sovraffollato. È una basilare tecnica di sopravvivenza, che si fonde con un profondo senso dell’umanità. Succede quando si è disperati, ma non per questo ciechi. Quando si crede di poter continuare a provare, sapendo che da soli non si può riuscire, ma che c’è sempre l’altro, lì accanto, con cui scambiare parole di conforto e gesti di aiuto. Come dare e ricevere confidenze. Come passarsi un piatto di riso o un secchio per svuotare il fondo della barca. Si sta vicini e si sa che è una cosa buona, e che comunque non se ne può fare a meno. Non importa quale sarà l’esito dell’avventura. Ciò che conta è averci creduto, ed essere rimasti insieme, fino all’ultimo, costi quel costi. La pirogue è il racconto di un ordinario percorso di fuga, un cammino scavato a morsi dentro la giungla della sventura, in cui l’unico eroismo è il rifiuto di dichiararsi sconfitti. Il realismo del film è modesto e sommesso come la fatica di tirare avanti. Ed è la poesia senza rima di una ballata che si morde la coda, eppure non smette di riproporre il suo austero e vigoroso ritornello.
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