Regia di Michel Franco vedi scheda film
La macchina da presa è fissa e frontale, la scena si svolge in tempo reale nella profondità di campo, musica è soltanto diegetica. Eppure non c’è niente di teatrale nella scelta registica di Franco, né la recitazione, perfettamente naturalistica, né l’ambientazione, tutta in esterni ed interni reali. È una scelta di rigore estremo che rimane coerente in ogni inquadratura, che molto spesso si allarga a piano-sequenza, limitando il montaggio al raccordo tra scene e puntando ad una costruzione all’interno del quadro, ad un découpage dei movimenti che scava nel gesto e non lo moltiplica nella dissipazione del punto di vista. Franco si avvicina alla modernità tematica dei Dardenne ma ne disdegna la nervosità della macchina da presa, pur assumendone la franchezza visiva. Non insegue i personaggi, non li tallona ma li guarda da una distanza disincantata, con una freddezza bressoniana e con una precisione dell’inquadratura che si allinea ad una crudezza dello sguardo implacabile, come le sue stesse scelte stilistiche. E poiché la fissità dell’inquadratura implica, letteralmente, una scelta di campo, il fuoricampo diventa fondamentale alla narrazione, l’assenza pesa inesorabilmente sulle vicende dei due protagonisti. Roberto e Alejandra, padre e figlia dall’apparente complicità di affetto, cercano una diversa serenità cambiando casa e città dopo l’incidente automobilistico mortale che ha ucciso la moglie e la madre. Lucia è morta in una sciagura di cui vedremo, in seguito, soltanto l’esito, mentre il film intero vive sulle conseguenze di quella scomparsa, di quel fuoricampo definitivo e ontologico che è la morte. E, lavorando sul fuoricampo, Franco opera per aggiunte e impone allo spettatore deduzioni dal visibile. Ciò che è successo non viene apertamente raccontato ma si ricostruisce per accenni, si ricava da discrepanze e fenditure, dalle ferite lasciate aperte. Il passato non rivive nel film ma scava il presente, mina ogni gesto e comportamento dei protagonisti, li porta a sbagliare, a deragliare da una normalità che non è più a portata di mano. La struttura dell’enigma implicito impone la ricerca dello svelamento dell’antefatto e, attraverso questo tenue giallo motivazionale, la vicenda sembra dirigersi verso un dramma esistenziale da camera. Poi, all’interno di una cronaca di una vita familiare, prende il sopravvento il ritratto di una modernità di comportamenti giovanili che riecheggiano la pulsione scopica di Larry Clark, al netto del fuoricampo messicano e delle personali ossessioni del regista americano. Ma il sesso è un altro pretesto per un ulteriore scarto narrativo, la registrazione di una profonda, immotivata e amorale crudeltà minorile, di un bullismo adolescenziale che pareggia le differenze di genere nell’unica discriminante dell’unità contro la vittima designata, mentre l’istituzione scolastica (e, quindi, sociale) diventa paravento e microcosmo di privilegi e di angherie (materiale perfetto, nella sua modernità trans-nazionale, per, ad esempio, una puntata di Law & Order: Special Victims Unit). Infine, con un altro salto motivato, arriva il thriller e l’ambientazione messicana fa valere le proprie prerogative noir. Il film non si conclude con una catarsi o un lieto fine, si interrompe così come era iniziato, con un’apertura del sipario dello sguardo a cui corrisponde, quindi, un’interruzione altrettanto brutale. I personaggi hanno vissuto prima e il racconto lascia spazio per una narrazione successiva, accennata ma non ritratta, di una vita dopo. La finestra del film si richiude, le vicende, guardate con freddezza apparente da una macchina da presa relativamente lontana, si sospendono, lasciano spettatori attoniti e partecipi, privati dagli artifici consueti del cinema ma catturati dalla spietata chiarezza di immagini nude.
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