Regia di Laurent Bouzereau vedi scheda film
Un suggestivo e appassionate percorso in parallelo equamente diviso fra cinema realizzato e vita reale che grazie alla collaborazione di Bouzereau, aiuta Polanski a ripensare e rileggere il suo doloroso passato fra incubi, paranoie, drammi familiari e persecuzioni mediatiche che fa trasparire davvero moltissimo del suo travaglio privato.
Roman Polanski: a Film Memory (realizzato da Laurent Bouzereau, fotografato da Pawel Edelman, montato da Jeff Picket e musicato da Alexandre Desplat) – vera e propria sorpresa di questa torrida estate un po’ errabonda e avara di proposte sempre incerte e ballerine – è una tormentata, accorata e sincera testimonianza sulla perdita dell’innocenza, un ritratto lirico, intimo e privato di un uomo dall’identità sfuggente, complessa ed enigmatica come può essere appunto quella di un’anima sfregiata dal dolore come quella di Polanski, eternamente in fuga (da se stesso e dai propri demoni) e segnata dalla corrosiva, silenziosa e sofferta convivenza con i sensi di colpa che lo perseguitano da sempre, dalla dannazione perpetua del ricordo indelebile dei tanti fatti traumatici subiti e provocati e mai disconosciuti che hanno contrappuntato il suo percorso di vita, illuminato però anche da brevi quanto intensi sprazzi di una effimera, fuggevole e precaria felicità serena. Un Polanski disponibile a “spogliarsi” senza alcuna reticenza, utilizzando il flusso implacabile della memoria e dei ricordi che non ammette sconti o tardive indulgenze, ma “documenta” invece e contestualizza con implacabile precisione, i momenti salienti della sua travagliata esistenza, attraverso una lunga, dolente, articolata e per certi versi estenuante conversazione con Andrew Braunsberg, suo amico da sempre e produttore di molti dei suoi film, realizzata durante uno dei momenti più bui del suo “calvario” umano, quello del prolungato periodo degli arresti domiciliari in Svizzera in esecuzione di una condanna che qualcuno in America non vuol far passare in giudicato.
Io l’ho trovato dunque molto coraggioso ed utile questo percorso a ritroso anche nei propri inferni, un film (lo scrive a chiare lettere Michele Gottardi su Segnocinema) che mostra quanto l’arte, e in particolare il cinema, mantenga sempre nel tempo la funzione catartica di ridare libertà e dignità ai suoi protagonisti (…) e cheè per questo anche un tributo al cinema, non solo a quello di Polanski, ma soprattutto a una certa idea di cinema testimone del reale che a noi piace molto (e se mi è consentito e mi si scusa per la presunzione, in quel “noi” indicato da Gottardi mi piacerebbe poter includere anche me).
La ricostruzione della vita di Polanski è fedele e documentata, a partire dalle tragedie che hanno segnato la sua infanzia, tra esecuzioni e drammi familiari, fame, rastrellamenti e lutti.
Il punto di partenza per intrecciare i fili della storia, non poteva dunque che essere il condizionamento di estrema prostrazione del giovane ebreo Roman subìto e sopportato proprio negli anni terribili del ghetto di Varsavia, durante il periodo della prolungata occupazione nazista, con la deportazione e la morte dei suoi giovani amici e quella della madre nel campo di concentramento di Auschwitz, con la altrettanto tremenda prigionia del padre sopravvissuto e tornato da Mauthausen alla fine della guerra profondamente segnato da un’esperienza che lo aveva praticamente distrutto. Sarà comunque già da quei momenti, da quei fatti, che Polanski mostrerà una grinta inaspettata per cominciare a contrastare (a volte commettendo errori irreparabili) la cattiva sorte che lo perseguiterà implacabile e più volte, o meglio che dimostrerà di aver imparato a sapersela cavare da solo (un’arte dolorosa, quanto necessaria per la sopravvivenza, però) sia pure tra sbandamenti e ritirate in giro per il mondo (un Fuggiasco in fuga dal Male, come si definisce egli stesso, riferendosi al protagonista del capolavoro di Carol Reed del 1946), cercando di attutire e renderlo meno lancinante, il dolore di vivere, delle perdite umane ed affettive (a lungo non sono stato più me stesso è un’altra delle sue accorate ammissioni che costellano l’opera, che riguarda l’altro terribile lutto della sua esistenza) abbrutendosi e annegandosi nella droga e nel sesso selvaggio che non potevano che portarlo a delle conseguenze aberranti e poco edificanti. Un percorso davvero ad ostacoli il suo - che non sembra mai riuscire ad approdare a una meta definitiva - fatto di frequenti rigenerazioni, di trasformazioni (esistenziali e sociali), di continue sfide, come quando alla fine della guerra iniziò a fare radio e cinema partendo proprio dal basso, e imparando spesso le lingue dai sottotitoli dei film originali con i quali stava progressivamente entrando in contatto formandosi una coscienza artistica in divenire, in un costante, faticosissimo tentativo di provare a trovare in qualche modo uno snervante e allettante equilibrio di convivenza con i propri fantasmi che gli potesse dare un po’ di tregua.
Con un suggestivo e appassionante parallelo fra la vita reale e il cinema realizzato da Polanski, con un sapiente mix di montaggio fra sequenze dei suoi film, immagini storicizzate, foto di famiglia, documenti d’epoca e frequenti, coraggiosi primi piani ripresi a distanza davvero ravvicinata fra rughe, sguardi obliqui e qualche smarrimento, Bouzereau suggella sulla pellicola a imperitura memoria ciò che proprio il regista narra in prima persona con commozione e inedita partecipazione tra drammi e depressioni personali, ripensando e affrontando gli incubi, la paranoia, le persecuzioni mediatiche, la violenza verbale e fisica, e le conseguenti lacerazioni profonde che tutto questo ha lasciato non solo nel suo percorso di vita personale, ma anche in quello della sua carriera artistica che fa trasparire davvero moltissimo del suo travaglio privato.
Un lungo flashback esistenziale, dunque di travolgente impatto emotivo.
Si badi bene però: questo film-memoria con i suoi flussi di coscienza (che lo fanno diventare anche e a suo modo memoria filmica di una carriera e un percorso artistico), non è stato fatto per ricostruire una verginità perduta, o peggio ancora per giustificare gli atti per i quali il regista è stato condannato (e provare ad assolverlo in extremis). Il suo obiettivo infatti è soprattutto quello, comunque importante e fondamentale, di collocare la vita i Polanski - e di conseguenza tutti gli atti compiuti nel suo scorrere implacabile - nel preciso momento storico e di personale smarrimento depressivo in cui si sono verificati, così da renderli più “comprensibili” ma senza alcuna volontà (palese o recondita) di voler esprimere un giudizio morale (o di tentare di ridurre il “danno” o le responsabilità), ma anche quello tutt’altro che secondario, di voler documentare gli eventi così come si sono svolti, letti attraverso la carta dell’intimità più nuda e genuina che ha il sapore certo della verità.
Traspare dunque dal racconto la consapevolezza inquieta delle proprie profonde contraddizioni e degli “sbracamenti” che li fa diventare specchio impietoso di un’epoca e di una frammentazione esistenziale dalla quale solo nell’ultima parte della sua vita il regista ha saputo (forse) definitivamente affrancarsi (grazie al matrimonio con Emmanuelle Seigner e la nascita dei suoi ultimi due figli).
Il film si conferma per questo documento e testimonianza umana di vitale importanza con il suo essere non solo “confessione” privata, ma anche una acuta e profonda indagine psicologica che porta a galla i timori di un uomo sconvolto dai segni e dai graffi del massacro di Bel Air dove – come tutti ricorderanno – mentre lui si trovava a Parigi, perse la vita (insieme ad altri quattro loro amici) sua moglie Sharon Tate in cinta all’ottavo mese per mano di un gruppo di satanismi guidati da Charles Manson.
Come si è visto dunque con una ricombinazione cromatica tra le fotografie del passato, del ghetto e della fame, e costruita in parallelo (e in simbiosi) con quella particolarissima autobiografia mediata già regalataci con Il pianista e il suo protagonista (il chiarissimo riflesso di se stesso) che diventa il paradigma eponimo di un cinema che è comunque e sempre all’insegna della resistenza e della sopravvivenza anche quando si fa più leggero e meno feroce o irriverente, A Film Memory è un’opera che scandaglia nel profondo l’anima di un uomo tormentato come pochi altri e lo fa cercando però e giustamente, un punto di vista e un baricentro più oggettivo e personale che prova anche a far luce sulle radici di quell’ossessione della colpa a cui accennavo prima, che ha scandito in negativo molte delle tappe della sua vita, facendola diventare quasi l’essenza di una predestinazione genetica, definizione spesso riservata alle vittime che a volte diventano carnefici (persino di se stessi).
Rifuggendo comunque da ogni possibile suggestione (o tentazione) di rileggere i fatti attraverso l’utilizzo mediato dei linguaggi cinematografici (e dei generi) utilizzati da Polanski soprattutto nel suo felice e produttivo “periodo americano” (in particolare con Chinatown e Rosemary’s Baby) Bouzereau ci regala un’opera sincera, poetica e personale scegliendo di registrare (e di collocare) ogni parola, ogni gesto della conversazione, in una struttura classica (che include anche citazioni dal poema If di Kipling), il che non esclude però ovviamente il recupero delle immagini di alcune delle pellicole fondamentali del regista (che come ho già detto, viene fatto anche in maniera abbastanza cospicua) ma che vengono qui utilizzate attraverso il potere evocativo della creatività inventiva, proprio per riprodurre la solitudine e il dramma esistenziale e di ispirazione dell’uomo e dell’artista, per il quale sembra volersi richiamare nell’essenza a una concezione della famiglia quasi di derivazione dickensiana, perchè la vita è romanzo (e per Polanski la definizione è particolarmente calzante e veritiera) e come nei romanzi d’appendice dell’ottocento, essa risulta spesso schiacciata - quasi condizionata – dal peso del Male e soprattutto del Fato dai quali però (come lo stesso Dickens insegna) è possibile alla fine anche emanciparsi, senza per questo voler per forza arrivare a tardive e inutili presunzioni di innocenza che non avrebbero senso.
Rafforzato dal valore della paternità, dal potere del libero arbitrio, Polanski sia pure con qualche comprensibile titubanza, esce dunque alla fine a testa alta anche da questa ulteriore prova, proprio perché non ha voluto tirarsi indietro o adombrare scusanti, pur ribadendo con forza il disagio (e il disadattamento) dovuto a un’esistenza segnata da troppe cadute e tragedie, e mostrandosi per questo praticamente consapevolmente “nudo alla meta” senza appelli, pietismi o revisioni, non solo come uomo, ma anche come artista a tutto tondo col carico doloroso della sua vita sicuramente sregolata, proprio perchè segnata dal terrore e dall’inquietudine, ma riscattata dall’affannosa e costante ricerca (e conquista) del diritto inviolabile della libertà d’espressione che non può e non deve essere negata a nessuno.
Come ben ci ricorda infatti ancora Michele Gottardi sempre su Segnocinema, il film non giustifica né assolve Polanski (ed ho già scritto anche io più sopra che non era assolutamente questo il suo intento), anche se la stessa ragazza “minorenne” di un tempo racconta di aver vissuto quelle situazioni spontaneamente e senza costrizioni, ma è stata l’America puritana e perbenista (e un giudice in cerca di celebrità) a non poter (né volere) perdonare a Polanski ritornando sopra a quei fatti lontani a scoppio molto ritardato, ed espellendo così l’ospite indesiderato, il corruttore, costringendolo a rimaner lontano dai suoi confini, visto che non è stata in grado di “annullarlo” fra le mura delle sue carceri che adesso in ogni caso (questo è il mio personale punto di vista ovviamente) non avrebbe più avuto alcun senso o giustificazione, proprio in virtù di quanto scritto in altri contesti e tempi da Cesare Beccaria con il suo Dei delitti e delle pene.
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