Regia di Brandon Cronenberg vedi scheda film
"Che significa meritare di essere famosi?
Chiunque sia famoso merita di essere famoso.
La celebrità non è un risultato.
Niente affatto. E' più come una collaborazione a cui noi scegliamo di partecipare.
Le celebrità non sono persone.
Sono allucinazioni di gruppo."
L'esordio in regia del figlio del tanto amato (e pure detestato)David Cronemberg, non poteva immaginarsi più nelle corde delle ossessioni del celebre regista, evidentemente come si trattasse di una caratteristica somatica di famiglia. Per fortuna, mi viene da aggiungere, perché Antiviral racchiude in sé il miglior mix tra la follia di massa che potrebbe essere una variante più elegante e glamour della tendenza autodistruttiva e masochista di Crash e la deriva di una metamorfosi efficace ma mostruosa che già creava delirio tra noi fans in Videodrome, Scanners o La mosca.
In una società sempre più racchiusa su se stessa e sempre più asettica di rapporti fisici, sempre più isolata e impaurita di contatti reali (già nel contemporaneo Cosmopolis da De Lillo il contatto era in via di estinzione), gli individui sempre più insicuri scelgono di condividere anche i problemi e i malanni delle celebrità che danno un senso alla loro esistenza.
Posto che il commercio di virus di star planetarie va a ruba, e le case farmaceutiche nel frattempo hanno costruito un impero su questo business, il giovane pallido e lentigginoso Syd March, uno degli agenti "iniettatori" dei malesseri più celebri e desiderati, cerca di far suo parte di questo ingente flusso di denaro divenendo portatore di parte dei virus più ricercati, che dunque decide di iniettarsi in corpo per poi rivendere (l'unico modo per uscire indenni al controllo severo posto all'uscita del laboratorio ove lavora) nel mercato nero tramite loschi individui del settore.
Questo commercio clandestino innesca tutta una catena di avvenimenti ed intrighi in cui alla fine la morte (della star più indiscutibilmente ambita) cessa di essere la fine di tutti i sogni perché la scienza e la sete di ricchezza e potere farà si che anche l'esperienza dopo la morte possa essere vissuta e contemplata.
Morboso, ossessivo e piuttosto complesso nel più classico ostinato "nome del padre", il film di Brandon Cronemberg è un ulteriore tassello di famiglia sulla cinica povertà morale ed insieme stupidità senza rimedio della razza umana, giunta alla deriva dei propri sentimenti.
Alla riuscita della pellicola risulta determinante la scelta di un protagonista che sarà la probabile star dei prossimi anni (chissà se un giorno si venderanno sul mercato i suoi virus influenzali): quel Caleb Landry Jones androgino e pallido come un nuovo David Bowie, un ragazzo venuto dal futuro che in ogni sua apparizione, anche la più fugace, ha saputo fino ad ora distinguersi e farsi apprezzare per quel suo sguardo allucinato e fragile, per quel suo efebico corpo pallidissimo cosparso di lentiggini che inquietano ma suscitano ammirazione come ci trovassimo di fronte ad una merce rara e preziosa, o davanti ad una mutazione albina della razza umana che tende alla perfezione grazie alle proprie magnifiche imperfezioni.
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