Regia di Sergei Loznitsa vedi scheda film
La morte non si vede mai. È un mistero avvolto nella nebbia, da cui è meglio distogliere lo sguardo. Osservare, d’altronde, non serve a niente: impossibile cambiare quella certezza, che prima o poi tocca a tutti, soprattutto a coloro che più la temono. È vano tentare di sfuggirle, perché essa ti coglie comunque, dalla parte della ragione come da quella del torto. Ed è sempre lei a scegliere l’ora ed il modo. Sushenya avrebbe voluto finire come i suoi compagni di lotta, impiccato dagli invasori tedeschi. Si è sottratto eroicamente alle profferte del nemico, disposto a garantirgli la vita in cambio di un tradimento. Eppure il capo della locale Kommandantur, di stanza in un paese della Bielorussia, lo ha lasciato libero, negandogli l’onore del martirio, ed imprimendogli, pubblicamente, il marchio dell’infamia. Tutti i suoi compaesani credono che Sushenya si sia venduto, e per questo lo odiano. I partigiani lo stanno cercando per fucilarlo, ma nemmeno loro sono al riparo dall’ineluttabilità di un destino che, a sua discrezione, in un attimo trasforma i cacciatori in prede. A Burov e Voitik è stato affidato il compito di giustiziarlo: sono le leggi di una guerra fratricida, che non può accettare debolezze, sconfinamenti, ambiguità. Le regole sono chiare, nella loro spietatezza, tuttavia nulla possono contro l’imperscrutabilità di una sorte che, in quelle condizioni estreme, consegna il mondo alla mancanza di logica, all’assurdità che può davvero stravolgere ogni cosa. Le sue trappole sono disseminate ovunque, per poter colpire le vittime anche quando sono ferme, o si muovono lentamente nel buio, o restano nascoste nel fitto di una foresta. Una raffinata strategia opera, nel silenzio, tramando ai danni di chi si crede forte e coraggioso, e facendosi beffe della giustizia umana. La condanna segue, a tratti, le banali regole della vendetta, però fa a pugni con la coscienza. Chi sbaglia paga, magari in maniera eccessiva, ma paga anche chi, invece, meriterebbe di essere premiato. L’assassino cade a terra ferito prima di uccidere, ma l’innocente a cui stava per sparare non può dire di essersi salvato. Il primo non riesce a compiere la sua missione, il secondo, per contro, vede perpetuarsi la sua imbarazzante situazione di martire mancato, apparentemente sopravvissuto per pura vigliaccheria. Non c’è scampo a quel cinico gusto del paradosso che, approfittando dell’imperversare dell’odio, si impadronisce della Storia, rendendo tutto confuso, incomprensibile, incontrollabile. Lontano dal fronte, la battaglia si combatte annaspando disperatamente nel vuoto, alla ricerca di una qualche ragione. Il deserto dei mille perché si estende fin oltre l’orizzonte, privo di trincee ma cosparso di labirinti senza uscita. Non è la prima volta che il regista russo Sergei Loznitsa ci conduce attraverso i meandri di inspiegabili prigioni. Lo aveva già fatto in My Joy, raccontandoci la vicenda del camionista Georgy, che, una volta persa la strada, si ritrova in mezzo a perfetti sconosciuti, catturato da una realtà dalla quale forse non potrà mai più tornare alla sua vecchia vita. Anche l’attività documentaristica di questo autore testimonia uno spiccato interesse per gli ambienti ristretti ed appartati (The Train Stop, Settlement, Northern Light) in cui il nulla fa da cassa di risonanza alle verità interiori. La sua macchina da presa dimostra quanto sia inutile stringere l’obiettivo sui particolari, nell’intento di riempire l’inquadratura: il dettaglio, benché ingrandito e messo a fuoco, rimane comunque isolato, sfumato e come smarrito dentro la sua bolla di trasparente indeterminatezza. Le risposte sono fuori dalla nostra portata, e, dalla loro dimensione irraggiungibile, tingono l’atmosfera di un colore neutro ed uniforme.
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