Regia di Thomas Vinterberg vedi scheda film
In attesa di vedere Un altro giro, la loro ultima fatica, questa recensione è un modesto omaggio al regista Thomas Vintenberg e all’attore Mads Mikkelsen, vincitori del premio EFA, l’ambito Oscar europeo assegnato a entrambi ieri a Berlino. Davvero due grandi protagonisti del cinema europeo.
La caccia dovrebbe essere il titolo di questo lavoro del regista danese Vintenberg, come richiederebbe la traduzione corretta dell’originale Jagten.
Purtroppo il titolo italiano sembra autorizzare letture e interpretazioni più banali di quelle che il film merita, poiché lo colloca fra quelle pellicole costruite sulle difficoltà del rapporto fra i ragazzi e i loro educatori, in parte per gli equivoci che talvolta sorgono in certi contesti sociali di fronte a un approccio educativo caldo e confidenziale – corretto in sé e probabilmente utile ma poco consueto e perciò temuto e demonizzato – in parte per la generale mitizzazione della naturale sincerità dei bambini, che, invece molto spesso inventano fantasiosamente, senza troppo pensarci, e talvolta per vendicare presunti torti.
Mi è sembrato, invece, che Vinterberg affronti non tanto il tema dell’inaffidabilità e dalla finta innocenza dei bambini, della loro propensione alla menzogna e della facilità con cui vengono creduti dagli adulti, mettendo quindi nei guai persone per bene - in questo caso uno degli operatori nell’asilo del villaggio, Lucas (Mads Nikkelsen), accusato senza ragione di pedofilia - quanto un tema poco presente al cinema, se non in alcuni paesi del Nord Europa in cui la tradizione luterana e la connessa attenzione al tema del male sembrano aver permeato profondamente la mentalità collettiva, saldandosi ai persistenti miti più antichi e primordiali, immediatamente individuabili fin dall’inizio del film.
La caccia, per l'appunto, sembra essere, dall’inizio alla fine, il vero centro narrativo della pellicola, quello che le conferisce una continuità coerente, perché, sia che racconti il sacrificio degli animali innocenti a un hobby crudele e ormai privo di motivazioni materiali, sia che rappresenti la caccia all’uomo di molte altre scene, fino all’ultima, apparentemente priva di senso, ci testimonia il persistere di una ferocia profonda del cuore di tutti gli abitanti del villaggio, comprese le donne, che, pure, non avevano partecipato al rito barbarico dell’uccisione degli animali, né a quello successivo e tutto maschile delle bevute fino allo stordimento.
Saranno proprio le donne, dalla direttrice dell’asilo alle madri di famiglia, le persone più lucidamente determinate a perseguitare il povero Lucas, a isolarlo anche quando la sua innocenza verrà conclamata. Proprio l’innocenza del giovane e mite insegnante è l’elemento intollerabile, che l’intera popolazione non gli può perdonare, perché ha il torto di mettere in luce il malvagio sentire di tutti. A quel punto nessuno si esimerà dall’individuare in lui il”mostro diverso”, colpevole di ribaltare l’immagine positiva che ognuno ha di sé.
Egli diventerà perciò il capro espiatorio, la vittima sacrificale che, assumendo su di sé le colpe collettive, riporterà l’intera popolazione turbata e in subbuglio a quella condizione di equilibrio che appare nelle prime scene del film.
Lo schema narrativo mi pare ripercorrere con le immagini, molto belle e giustamente scure e “notturne”, le indicazioni dell’antropologo francese Réné Girard quando, alla fine del secolo scorso aveva cercato di chiarire, come il costante ripetersi di alcune circostanze determini nelle aggregazioni umane la ricerca di una vittima da sacrificare, di un capro espiatorio e perchè esso diventi un elemento quasi indispensabile all’equilibrio delle stesse, anche se sembrano lontane fra loro per cultura, modo di sentire, abitudini religiose.
Il film si presenta perciò come un’opera da meditare, complessa e suscettibile di ulteriori approfondimenti, scritta bene e molto ben diretta, interpretata in modo eccellente da Mads Mikkelsen, nei panni di Lucas (Palma d’oro al Festival di Cannes 2012 come miglior attore).
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