Regia di Thomas Vinterberg vedi scheda film
Il cinema danese è alla ricerca di se stesso. Dopo la sbornia suscitata dal clamore per il movimento “dogmatico” che in definitiva ha dato ragione a chi tra righe vi leggeva l’ennesimo sberleffo del suo ideatore, l’unico che in fin dei conti ne ha tratto concreto vantaggio, la cinematografia di quel paese sta ora pagando la diaspora seguita alla chiusura di quel ciclo. Una delle conseguenze più evidenti è lo sguardo erratico ed incerto di registi come Thomas Vinterberg, come altri ancora alle prese con un processo di emancipazione lungo e difficile, emblematico di opere come “Il sospetto”, appena uscito nelle sale italiane dopo il discreto successo all’ultimo festival di Cannes. Per la sua ultima fatica Vinterberg si affida nuovamente a temi e situazioni che ripropongono attraverso una storia di presunta pedofilia il ritratto di una società fintamente progressista ed incapace di guardarsi allo specchio per paura di scoprirsi, repressa ed anche bigotta. Il motore della vicenda sono le parole malferme e casuali pronunciate da una bambina dell’asilo nei confronti di Lucas, insegnante appena divorziato e padre di un adolescente che la ex moglie non gli lascia vedere, improvvisamente licenziato dalla scuola con l’accusa di aver molestato la sua alunna. Abbandonato dagli amici ed in attesa di conoscere gli esiti dell’indagine, Lucas è perseguitato dai concittadini che ne scoraggiano qualsiasi partecipazione alla vita comunitaria. Che Vinterberg sia poco interessato al tema della pedofilia appare chiaro fin dalle prime battute quando i risvolti morbosi della vicenda sono messi sullo sfondo per lasciare spazio alle dinamiche relazionali che si sviluppano a partire da quell’evento. In questo senso il film disegna uno spaccato da caccia alle streghe, con amici e colleghi incapaci di far valere le ragioni del cuore e pronti a condannare Marcus prima del tempo e sulla base di luoghi comuni come testimonia la frase che la preside gli rivolge: – “I bambini non dicono mai bugie” - prima di congedarlo dal posto di lavoro. Un atteggiamento di superficialità, questo, che finisce per coinvolgere anche il film nella sua struttura, caratterizzata da un accumulo di situazioni da via crucis, con il calvario di Marcus portato avanti attraverso le varie stazioni del dolore piuttosto che nell’approfondimento psicologico di un carattere completamente definito nella sua funzione cristologica ma trascurato quando si tratta di dare conto – soprattutto nella parte finale - dei suoi rari scarti emotivi . Una mancanza che non ha un solo colpevole ma a cui concorre anche un meccanismo narrativo privo di sfumature per il fatto di mostrare fin da subito l’infondatezza di quelle accuse. Così, se in un opera come “Festen” la drammaturgia era costruità sulla continua sospensione della verità, favorita da un intreccio che procedeva come un thriller esistenziale, ne “Il sospetto” tutto questo è sostituito da un surplus di esteriorità enfatizzata ed anche sanguinolenta, come dimostra la scena del pestaggio al supermercato, dove all’esposizione della figura ferita subentra a tempo scaduto il commento delle persone che la incrociano, a ribadire una constatazione che lo spettatore conosce ampiamente per averla vista con ogni dovizia di particolari. Debolezze di una sceneggiatura che lascia aperte molte cose, ne dimentica altre per strada (per esempio l’indagine) e non riesce a creare alternative dialettiche – i personaggi di contorno sono appena accennati – alla centralità del personaggio principale. Mads Mikklsen nei panni di Marcus ha vinto il premio come miglior attore protagonista all’ultima edizione del festival di Cannes.
(icinemaniaci.blogspot.com)
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