Regia di Enrique Pineda Barnet vedi scheda film
"L'odio è il peggior cancro che può invadere l'essere umano, e il più inconcepibile è l'odio dell'amore, che può sembrare un paradosso, ma che è invece una triste realtà che porta spesso a conseguenze traumaticamente devastanti " (Enrique Pineda Barnet).
Si potrebbe partire proprio da questa dichiarazione del regista per parlare della sua ultima coraggiosissima fatica, anche se si dovrebbe parlare forse con più appropriatezza soprattutto della paura di ammettere ciò che si è, della non accettazione “disturbata” di una evidenza che crea uno smarrimento che diventa davvero insostenibile dopo la consumazione di un atto estremo inconsciamente desiderato ma impossibile da metabolizzare e che genera il rifiuto in chi si sente all’improvviso “scoperto” e perduto, incapace di continuare a mentire a se stesso, ma con il bisogno quasi disperato di riaffermare la propria “integrità” maschile ormai definitivamente “contaminata” attraverso una ribellione feroce e rabbiosa che “deve” necessariamente annullare, distruggere l’origine del turbamento e dell’attrazione, così da fa sparire le prove della propria “devianza”, anche se ormai nel “dopo”, nulla potrà essere più davvero come prima e si dovrà per forza fare i conti con una verità troppo a lungo negata.
Crudo ed esplicito (tutt’altro che perfetto, ma sicuramente “necessario” e importante)il film sorprende per la sua efficacia soprattutto visiva che trasuda erotismo e attrazione carnale senza però mai essere volgarmente ammiccante (una “libertà” assoluta di espressione che non lascia davvero indifferenti, difficile da immaginare qui da noi in Italia per il moralismo bacchettone che ci contraddistingue, che utilizza gli sguardi, le flessuose movenze, lo sfioramento fra il carezzevole e brutale dell’epidermide, per creare emozioni profonde ed un’atmosfera rarefatta, ma molto conturbante che arriva molto vicino ai limiti estremi del trash, dentro a un clima complessivo della messa in scena teso e morboso, fortemente claustrofobico e molto “arroventato”, dove i corpi sembrano davvero urlare la forza del proprio desiderio, e le parole, spesso violente, contribuiscono in modo esponenziale ad aumentare il tasso già espanso di sessualità espresso dalle immagini). L’opera è infatti il risultato di un lavoro pensato e realizzato da un anziano autore ormai quasi ottantenne, e non si direbbe proprio se non ci fosse l’anagrafe a confermarlo (Enrique Pineda Barnet è nato a Cuba nel 1933), vista la baldanza giovanile con cui vengono affrontati tabù profondamente radicati all’interno di un paese omofobo come quello in cui si trova a lavorare e vivere e dove la diversità è avversata, repressa e perseguitata da sempre come se si trattasse di un reato infame, persino “antirivoluzionario” (al riguardo, c’è la testimonianza lontana, ma personale e “certa”, di ciò che ha dovuto subire lo scrittore Reynaldo Arenas anche semplicemente per poter pubblicare all’estero il suo autobiografico romanzo Prima che sia notte, poi tradotto in immagini per lo schermo da Julian Schnabel con un intenso Javier Bardem).
Non consociamo purtroppo quasi niente del cinema cubano, e quindi è difficile collocare questa pellicola in un panorama più generale e valutarne la rilevanza anche al di là della tematica trattata. Sappiamo però che seppure con scarsissime risorse a disposizione e finanziamenti più che limitati, è un cinema molto vivace che ha attraversato quasi tutti i generi, mantenendo sempre un certo livello e una più che discreta dignità anche formale. Per questa sua vitalità, è stato considerato da più parti, fra i migliori tra quello realizzato e prodotto nei paesi dell’America Latina. Certo è che per quel paese così chiuso e intransigente, Verde verde rappresenta davvero un traguardo importante ed una provocazione che ha il sapore della sfida, perché al di là dei suoi meriti artistici, sembra voler evidenziare in qualche maniera proprio attraverso il suo visionario anticonformismo, la rivincita (e la rivendicazione) di una espressione artistica più libera e disinibita che potrebbe alla fine prefigurare persino un atteggiamento un tantino più clemente rispetto al passato del regime di Raul Castro nei confronti della comunità GLBT cubana, non ancora però convalidato nei fatti perché non abbiamo riscontri sicuri di una emancipazione in questo senso in ciò che avviene davvero nella vita reale di tutti i giorni dopo le strette imposte in tempi non lontani, per controbattere l’offensiva del cosiddetto turismo sessuale anche coniugato al maschile, che aveva fatto diventare Cuba la meta ideale per la realizzazione pratica di ogni desiderio.
L’osticità disturbante dei temi trattati (la paura, il machismo, l’omofobia, la non accettazione. il doversi nascondere, il non volersi “riconoscere”) è evidente, e ci deve essere davvero voluto un ardimento da leoni per proporre a un regime conservatore come quello cubano, questa pellicola e per arrivare poi ad avere l’assenso per trasporla nelle immagini che poi abbiamo potuto vedere anche noi passare sullo schermo (da sottolineare comunque che il voyeurismo fine a se stesso è lasciato praticamente fuori dalla porta, ricorrendo semmai salvo che in un segmento “obbligatoriamente” realistico, al supporto ugualmente “esplicativo” ma più mediato e meno “diretto” offerto dai bellissimi disegni di Rocio Garcia che fanno da commento). Probabilmente se si è potuto fare un passo che all’apparenza può risultare persino più lungo della gamba, infrangendo una vera e propria interdizione sociale cha puzza di emarginazione, lo si deve all’importanza e alla fama anche internazionale di Pineda Barnet (al suo attivo una trentina di titoli fra lungometraggi e documentari molti dei quali proiettati con successo nei festival cinematografici di tutto il mondo e che hanno ottenuto alcuni riconoscimenti di assoluta rilevanza nei corrispondenti palmares, ma anche scrittore, giornalista, attore e sceneggiatore – ha collaborato in tale veste alla realizzazione di un titolo importate come Io sono Cuba realizzato da Mikhail Kalatozov nel 1964 al quale dedica molto spazio nella sua storia del cinema anche Mark Cousins, e di Queimada di Gillo Pontecorvo - e unico regista cubano ad essere stato candidato all’Oscar nel 1991 per il miglior film straniero con Bella del Alhambra che l’anno prima si era aggiudicato in Spagna il premio Goya. Ha vinto inoltreil Premio Nazionale di Letteratura nel 1953 e nel 2006 ha ricevuto il National Film Award che è il riconoscimento cinematografico più prestigioso di quel paese). Di fatto, è il secondo film che tratta problematiche così scottanti come l’omosessualità e l’omofobia, prodotto a Cuba con il contributo essenziale dell’Istituto di Arte Cinematografica, e ciò avviene più o meno vent’anni dopo Fragole e cioccolato di Tomas Gutierrez Alea e Juan Carlos Tabio – che è del 1993 - l’atro film di analoga tematica – anche se non ugualmente tragico nelle conclusioni - finanziato dallo stesso Istituto (nel mezzo, a quanto mi risulta, solo un altro titolo più indipendente ma non meno coraggioso, come 'Chamaco' di Juan Carlos Cremata anch’esso realizzato in tempi abbastanza recenti, visto che è del 2010).
Tornando al film in questione, Pineda Barnet rievocando personaggi e atmosfere assimilabili ad oniriche ossessioni dentro a una trama fortemente “simbologica” e altrettanto fuori dal tempo da risultare quasi surreale per gli evidenti riferimenti a una Cuba fittizia e molto immaginaria lontanissima da una riconoscibilità specifica, ha inteso citare espressamente nella storia e nella costruzione delle sue emblematiche figure, Querelle di Fassbinder (con espliciti riferimenti che vedono la cantante Farah Maria impegnata in un ruolo davvero molto similare a quello assegnato dal regista tedesco a Jeanne Moreau, e un manifesto che nella prima stesura mostrava un pugnale che aveva per manico un pene – poi censurato e sostituito da quello più morbido e “tollerabile” ma anche molto meno efficace ed eloquente, disegnato da Julioeloy Mesa), e più in generale, fornire un evidente e diretto omaggio a tutta la poetica Genetiana, con qualche riferimento più sotterraneo anche al primo Almodovar (soprattutto Matador, tanto per intenderci).
Con questo film, che l'autore definisce un thriller psicologico, si è inteso dunque denunciare il machismo e l'omofobia ancora oggi molto diffusi a Cuba, dove si continua a pensare in modo dogmatico al mondo ed alle cose (sentimenti inclusi), e dove sembra regnare sovrana una nociva ostilità profondamente radicata verso ogni possibile cambiamento anche semplicemente dei costumi. che porta ad odiare (e a temere ed avversare) tutto quello che è diverso o che risulta “non conforme”.
Il film è stato girato in pochissimi ambienti che sono riconducibili a poco più di tre location: un malfamato e fatiscente bar del porto, meta di incontri e di trasgressioni, l’hangar dove abita uno dei due protagonisti, e un labirinto di corridoi tutti collegati da un vecchio ascensore sporco e arrugginito.
L'audacia del film risiede dunque non tanto nel soggetto in se stesso, quanto nella rappresentazione dei demoni nascosti dietro la facciata perbenista di uno dei due protagonisti della vicenda. Vi si narra la storia di Alfredo che si dichiara apertamente “bisessuale” (forse parlare esplicitamente di omosessualità tout court sarebbe stato troppo), di professione medico della marina mercantile, che incontra proprio in quel locale del porto, Carlos, un informatico con aspirazioni di pilota, che vive malamente la propria omosessualità, o meglio negandola totalmente, ma che accetta l’amicizia e l’invito dell’altro a seguirlo nella sua abitazione (ricca dei souvenir dei suoi viaggi) con la scusa di mostrargli qualcosa di molto speciale. Lì, nell’intimità della casa fra cimeli e ricordi che arrivano da civiltà lontane, inizia ben presto un gioco di seduzioni incrociate che deve fare i conti con i pregiudizi e le convenzioni sociali, ma che porterà lentamente i due a danzare insieme, ad abbracciarsi, e alla fine a concedersi all'amore in un gioco all’inizio quasi rituale, dove sembrerebbe essere proprio il medico ad assumere le “sembianze” del prevaricatore. Questa fittizia realtà, verrà però ben presto totalmente ribaltata, per trasformarsi alla fine in una terribile e sanguinosa tragedia un po’ grandguignolesca che si riscatta comunque nel ritmo imposto al racconto costruito su una frammentazione suggestiva di riferimenti e di rimandi anche “al dopo” anticipato in più di un’occasione, e magistralmente e arditamente punteggiato – quasi ritmato - dal frequente clangore di quel fatiscente ascensore a cui accennavo sopra, in costante e sferragliante movimento.
L’esterno, il mondo, è tratteggiato invece solo di scorcio, riguarda soltanto ciò che si scorge dalla finestra dell’appartamento e si risolve in reiterate visioni quasi orgiastiche di marinai nudi che ballano fra loro e si palpeggiano allupati, giù, sul molo lontano, tanto “irreali” però (è ovviamente una mia personale osservazione, non so quanto corrispondente al vero) da risultare quasi una traslazione delle fantasie erotiche troppo a lungo trattenute dell’informatico frustrato che sta vivendo forse e per la prima volta il suo intenso e “distruttivo” atto d’amore, nella conclusione quasi automatica dei suoi tentativi sempre più flebili di continuare a negarsi (io non sono come te) che alla fine lo inducono però a cedere all’evidenza della passione e ad incitare l’altro a non smettere, ad andare avanti, fino alla deflorazione, un rapporto furioso quasi animalesco che si conclude con un bacio tanto appassionato quanto violento, che sarà l’elemento “scatenante” che darà il via allo sconvolgente dramma finale.
Se vogliamo allora, il film riassume in sé anche un altro importante valore, quello di spiegare ciò che si cela nei meccanismi malati e un po’ alterati della mente di chi pur non riuscendo a sottrarsi alla tentazione, continua ad avere terrore ad accettare e ad ammettere come naturale la propria diversità. Il regista è infatti bravissimo a descrivere la “compiacente” ritrosia dell’inizio (il “vorrei” “ma non posso”, insomma) e il successivo, progressivo lasciarsi lentamente trascinare nel gorgo del piacere e della passione, fino a varcare il punto del non ritorno, quello in cui diventa impossibile fermarsi di fronte persino all’atto estremo della deflorazione che diventa consenziente richiesta per soddisfare un “bisogno” troppo a lungo celato e che non può essere più disatteso per nessuna ragione al mondo… Risulta dunque chiarissimo anche da questo assunto, che i più feroci “avversatori” sono quelli che più “temono” la cosa forse perché la sentono pulsare in sé e hanno paura di cedere all’istinto, e quando accade…. sono davvero cavoli amari. Si spiegano così tanti delitti in apparenza poco motivati, perché al piacere del momento dell’estasi che non può mai essere contraddetto né sconfessato visto che è irrazionale e ingovernabile, segue poi sempre inesorabile l’”orrore” e la vergogna per l’atto compiuto, che si trasforma in furia selvaggia e dissociata. Come ho già accennato in apertura, quel cedimento, quella “caduta” che ha determinato la perdita di tutte le certezze strombazzate, genera un accanimento furente e un altrettanto incontenibile smarrimento che origina un annaspamento irrazionale e rabbioso quasi di ribellione finalizzato a cercare di annullare con la violenza efferata, il demone seduttore, dove non è però sufficiente l’uccisione del “corpo del reato” , ma si rende necessaria anche l’evirazione cruenta del “mezzo” che ha consentito la penetrazione, un atto estremo che finisce per fare affogare ogni cosa in un bagno di sangue e di disperazione. Quel selvaggio infierire sul corpo, fino alla sua mutilazione estrema, diventa così l’inutile e tardivo tentativo di provare a recuperare la propria identità di maschio distruggendo “il nemico” che con le sue tentazioni carnali, lo ha indotto ad infrangere quello che per un vero uomo è il suo tabù più ancestrale e profondo, e che riguarda la integrità assoluta di ciò che alloggia sotto ciò che (credo tutt’altro che casualmente), viene chiamato “osso sacro”.
Possiamo allora concludere che chi non ha il coraggio di “guardarsi” dentro con onestà, corre il serio rischio di uccidere ciò che ama?
Davvero molto interessanti e partecipate le prestazioni di tutti gli attori impegnati nel lavoro che non si sono certo tirati indietro o mostrati titubanti, a partire dall’erotico ed ammiccante ballerino del locale sul porto. Su tutti emergono però le eccellenti prove di Hector Noas (Alfredo) e Carlos Miguel Caballero (Carlos) , mentre Farah Maria si conferma emblematicamente adeguata a rendere palesemente carismatica la simbologia del ruolo che è stata chiamata a rappresentare.
Il film e stato proiettato al 27° Torino GLBT Film Festival dove pero non sembra – per lo meno a giudicare dai poco convinti applausi che ha ricevuto alla fine della proiezione - che abbia ricevuto il convinto e pieno consenso del pubblico presente. Riproposto a Firenze nell’ambito della decima edizione del Florence Queer Festival il 26 ottobre scorso come evento finale di una giornata piena di interessanti avvenimenti e quindi passato sullo schermo (probabilmente anche per i temi scottanti) a un’ora molto tarda, risulta difficile raccontarne l’accoglienza, visto che in sala eravamo rimasti davvero in pochi. Considerando però che nonostante l’indecenza dell’orario dopo l’inizio della proiezione non ci sono state defezioni ed è arrivato anche l’applauso alla fine, credo di poter affermare che almeno qui da noi è stato pienamente apprezzato da tutti gli astanti e non solo da me.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta