Regia di Dong Hyeuk Hwang vedi scheda film
Giovane insegnate di disegno da poco trasferitosi da Seul, viene raccomandato per un ruolo da docente in una scuola per sordomuti di una piccola cittadina fluviale. Qui dopo l'iniziale incredulità, scopre che i piccoli e indifesi allievi sono sottoposti a sevizie e violenze a sfondo sessuale da parte di preside e corpo docente. Grazie all'aiuto di una giovane attivista per i diritti umani e rischiando il lavoro con cui mantiene la figlia ancora piccola da poco orfana di madre, farà venire alla luce il caso e ottenere che i responsabili vengano processati. Le cose però non vanno come aveva inizialmente sperato.
Opera seconda del coreano Hwang Dong-hyuk, giovane autore sensibile alle tematiche sociali ed al mondo dell'infanzia (ricordiamo il film d'esordio My Father (2007) ed il corto Miracle Mile (2004) con cui si laurea alla University of Southern California), è la ricostruzione romanzata e rimaneggiata (dal soggetto che l'autore trae dal libro di 'The Crucible' di Gong Ji-young) di fatti di cronaca che sconvolsero la piccola cittadina di Gwangju all'inizio degli anni 2000. Tematica insolita per un cinema coreano che nell'ultimo decennio ha raffinato stile e iconografie del disimpegno più votati all'action thriller ed all'horror che al dramma sociale, il film di Dong-hyuk sembra trovare una sua coerenza narrativa nella costruzione di un soggetto che alterna la storia personale del protagonista (giovane padre vedovo che riceve l'aiuto della madre) a quella di una comunità provinciale e chiusa dove dilaga trasversalmente la corruzione morale e materiale di probi educatori dell'infanzia e integerrimi funzionari delle forze dell'ordine, ma che riesce a trovare al suo interno anche gli anticorpi per un riscatto civile e umano che scardini il sistema. Partendo dalle sottili furbizie di una sceneggiatura che utilizza una suggestiva simbologia paesaggistica (un villaggio remoto immerso nella nebbia dell'omertà e della connivenza) e introducendo gli insinuanti segnali di un disagio sociale che trova i suoi codici nel linguaggio non verbale od in quello dei segni, l'autore costruisce una storia esemplare di violenze e di riscatto che oscilla continuamente tra il dramma strappalacrime e le esasperazioni cruente di un relativismo etico da sempre al centro della morale cinematografica dell'ipertrofico realismo del cinema orientale, a metà tra finzione e disinganno. Pur nella distanza che ci separa da questo cinema a tinte forti e politically-incorrect, appaiono evidenti i limiti artistici di questo linguaggio di elaborazione della realtà che sembra più propenso a colpire allo stomaco lo spettatore che a portare avanti una tesi, rivelandosi un mero succedaneo dei più risaputi meccanismi del cinema occidentale di genere. Suddiviso nelle due parti di una storia che parte dalla denuncia sociale per approdare al dramma processuale, sembra perdere mordente verso un finale dove prevale il dualismo tra l'ingiustizia giudiziaria e la solidarietà umana dei protagonisti e dove le buone intenzioni di un epilogo tragico vengono chiaramente sconfessate dal buonismo di sentimenti formato famiglia. Bravi gli interpreti e bella la fotografia per il vincitore del Far Est Film Festival di Udine del 2012.
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