Regia di Valeria Golino vedi scheda film
Bere la morte o bere alla vita, sembrano i precetti che accompagnano tutte le esistenze di questo sorprendente e meraviglioso film, prima regia per un lungo, di Valeria Golino, già autrice dello short Armandino e il madre (2010).
Miele é Irene, una ragazza di trent’anni che ha deciso di aiutare le persone che soffrono: malati terminali che vogliono abbreviare l’agonia, persone le cui sofferenze intaccano la dignità di essere umano. Un giorno a richiedere il suo servizio è un uomo in buona salute, settantenne, che ritiene semplicemente di aver vissuto abbastanza. L’incontro fra i due metterà in discussione le convinzioni e le convenzioni della vita di entrambi, Irene si precipiterà in un dialogo serrato, lungo il quale la relazione tra i due sembrerà infittirsi di sottintesi e ambiguità affettive.
Miele è la trasposizione cinematografica del romanzo “A nome tuo” di Mauro Covacich. Il titolo del film è quello che la trentenne protagonista Irene, si dà per rendere meno amaro il passaggio di chi ha deciso di morire “come un cane”. Ad interpretare la donna, una sempre più brava Jasmine Trinca, accanto ad un eccellente Carlo Cecchi, che abita la pelle di un ingegnere, Carlo Grimaldi.
Il film della Golino ha un respiro europeo, è poco cinema italiano. Anche in fatto di scelte importanti: il suo esordio, a differenza di molti altri giovani registi italiani, non si abbandona ai virtuosismi registici e a macchine acrobatiche, piuttosto si concentra sulla parola. Perché Miele è un film che pesa ogni parola, fa i conti con le parole, comprese quelle che, accompagnate dalla musica, alleviano, o a seconda, intristiscono, perché accompagnate da grandi voci, che fungono da grandi santoni al caso di ognuno, da quella di Thom Yorke, passando per quella di Marino Marini e Christian Rainer.
E’ un’opera severa, sofferta quella della Golino, capace di contrapporre la morte che non muore ad un iperattivismo di Irene che, dall’inizio alla fine, volta le spalle alla morte. Non solo alla sua. Grandissima scelta quella di non far vedere mai davvero in faccia la morte. La Golino ha uno sguardo puntuale, ma essenziale, soprattutto discreto. E’ come se anche in questa sua felice e prima regia, continuasse a recitare, senza mostrarsi. E lo spettatore vede e comprende che si tratta di grande cinema. Un cinema d’autore, che ha il nome di una regista, donna. Italiana.
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