Regia di Mikio Naruse vedi scheda film
E’ realismo commosso quello portato avanti da Mikio Naruse in Yogoto no yume, suo ventiduesimo film tenendo conto di tutte quelle opere (molte, a dire il vero) che sono andate perdute, e risalenti a non molti anni prima del 1933. Inquadrando un angolo di un Giappone consumato dall’inedia e dalla fame, e fatto di gente semplice e dedita ai vizi più comuni (per questo forse più innocui?), Naruse zooma sui drammi di Omitsu, giovane entraneuse di un ginza bar portuale dove intrattiene gli uomini insieme ad altre prostitute. Con i ricavati riesce a nutrire il figlio Fumio, protetto da due coniugi che le affittano un appartamento, e che la pregano più volte di trovare un mestiere onesto, benché lei sia sempre restìa all’idea. L’arrivo di un vecchio amante di Omitsu, nonché padre di Fumio, sembrerebbe portare nuove speranze in seno alla famiglia. Ma le cose non sono destinate ad andare per il verso giusto.
Naruse elabora un trattato di tensione emotiva in cui la cinepresa indugia sui volti e sull’espressività dei suoi personaggi, interessata com’è più ad essi che alla storia in sé (che però li influenza e li contraddistingue). Con movimenti secchi e un montaggio a tratti serrato a tratti dolce e delicato riesce a stare alle calcagna della variabilità espressiva di Sumiko Kurishima, la prima vera diva della storia del cinema giapponese, impegnata qui in un ruolo certo complesso che non sfocia mai nel piagnisteo gratuito. Il capovolgimento dei ruoli, che allo spettatore occidentale può sembrare strano e originale, ovvero quello della donna non debole e domestica ma forte e caparbia (qui sommata a un certo fare civettuolo con cui Omitsu è costretta a lavorare nel bar) e quello dell’uomo fragile e poco forte, è ricorrente nel cinema giapponese del pre e del dopo guerra (basti vedere certi personaggi femminili dei film di Mizoguchi), oltre alla particolare attenzione nei confronti dei bambini e dell’infanzia (qui tratteggiata in maniera tenera e straziante, tenerissima quando Fumio ripara la scarpa del padre con un pezzo di carta e una gomma da masticare), proprio anche di certa produzione di Yasujiro Ozu. Ma diversamente da altre opere probabilmente più imperniate sugli avvenimenti storici che caratterizzarono il Giappone nel primo Novecento, Yogoto no yume risulta essere più intimista, attento ai piccoli eventi (benché tragici, il più delle volte).
La regia di Naruse riesce ad essere umile e magniloquente al contempo. Con un’ipercinesi che va di pari passo con il thriller emotivo dei volti e degli eventi riesce a coinvolgere in modo potente e efficace, soprattutto quando si parla di rivelazioni e di colpi di scena (in appena un’ora di film tutti concentrati negli ultimi minuti). E la conclusione possiede la splendida mestizia di chi è conscio di come sia la realtà e vede di accettarla così com’è, sperando non possa peggiorare ma certo sicuro che non possa migliorare; eppure non c’è pessimismo, ma solo tragica, eroica, rassegnazione.
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