Regia di Mira Nair vedi scheda film
C'è una scena cruciale, in questo film di Mira Nair capace di scavare con sorprendente abilità ispettiva nella psicologia di un immigrato al soldo di una grande azienda di analisi finanziarie (Ahmed), ed è quando un editore turco - prossimo al tracollo della sua impresa - domanda al giovane protagonista se sa chi fossero i giannizzeri. Già, perché Changez Khan (questo il nome del protagonista) altro non è che l'emblema di una forma aggiornata di giannizzero, allevato come un fanatico secondo i dettami di Wall Street e poi messo nelle condizioni di nuocere proprio al suo popolo d'origine, quello pakistano, all'indomani dell'11 settembre.
La storia ci viene raccontata come un lunghissimo flashback che nasce da una specie di intervista che un agente della CIA (Schreiber), sotto le mentite spoglie di un giornalista, vorrebbe fare al nostro protagonista che nel frattempo si è dato all'insegnamento universitario dopo avere lasciato - non senza vicissitudini - gli agi (ma anche le difficoltà connesse all'aspetto somatico tipicamente mediorientale) e il cospicuo conto in banca della sua vita di emigrato di lusso. Nella partita a scacchi tra i due si celano visioni opposte su verità e collaborazione. Meglio di un trattato sulla teoria dei giochi.
L'indiana Mira Nair aveva già detto la sua sulle conseguenze dell'11 settembre partecipando con un corto al film collettaneo intitolato proprio a quella data. Qui allunga lo sguardo sulle forme opposte di fondamentalismo; quello che insegna le regole su come piegare le piccole aziende dandole in pasto alle multinazionali e quello che invoca le verità assolute espresse dal Corano. Per quanto la regista cerchi di mantenersi equidistante da entrambi, rasentando il cerchiobottismo, il personaggio del pakistano suscita una simpatia indubbiamente superiore al suo pavido antagonista.
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