Regia di Sidney Lumet vedi scheda film
Pelle di serpente (ovvero The Fuggitive Kind che è il titolo originale, o meglio ancora Orpheus Descendnig, che è poi quello dell’omonimo dramma teatrale che l’autore assicurò essere stato scritto appositamente per Brando e la Magnani) conferma e amplifica le ambizioni tragiche e il pesante, “morboso” intellettualismo dell’opera teatrale di Tennessee Williams, che il regista Sidney Lumet ha dignitosamente (ma senza poi andare molto oltre) trasferito sullo schermo (utilizzando una sceneggiatura scritta dallo stesso Williams con la collaborazione di Meade Roberts), conservandone gli effetti (anzi sottolineando fortemente gli aspetti più biechi della vicenda) e il sapore letterario di una scrittura spesso esornativa e sopra le righe come quella del drammaturgo americano. Ci sono in pratica pochi dubbi sul fatto che si tratti di una trasposizione in immagini di un testo di origine teatrale, perché a tale natura purtroppo resta vincolata la rappresentazione, nonostante alcune incursioni verso l’esterno, insufficienti però a dinamicizzare l’azione, così come era invece accaduto con magnifico senso del ritmo e splendidi risultati figurativi pur rimanendo praticamente vincolato alle dimensioni contenute di un unico ambiente o poco più, al Kazan di Un tram che si chiama desiderio.
Interpretato da un eccezionale parterre di attori, soprattutto sulla carta (perché nella sostanza i risultati sono poi abbastanza disomogenei nel loro insieme, e in qualche momento addirittura stridenti), e non parlo solo del tris dei protagonisti: Brando, la Magnani e la Woodward che fra tutti è certo quella che se la cava meglio, ma anche del superbo contorno formato da Victor Jory, R.G. Armstrong e soprattutto dalla trepida, dolorante e visionaria Maureen Stampleton, il film ha una carica drammatica violentissima, quasi insostenibile, raggiungendo risultati di alta emotività nella rappresentazione di un ambiente e un’atmosfera – quella del profondo sud tanto caro al drammaturgo – sempre più gravidi di angoscia e di morte, ma uno scarso appeal emozionale nonostante la tragica fatalità vendicativa della conclusione, in relazione alle vicende narrate.
Al di là dell’evidente compiacimento per tutto ciò che è perverso, corrotto, morboso e lugubre, Pelle di serpente offre in ogni caso un’interessante e impressionante testimonianza dell’inerte disperazione cui si sono abbandonati nella seconda metà del secolo scorso (alcuni continuano a farlo anche nel presente), molti intellettuali americani, capaci solo di analizzare con estrema lucidità e anche con molta acutezza, le gravissime piaghe morali e sociali del loro paese, di stigmatizzarne la drammaticità delle conseguenze, ma incapaci non solo di individuare un possibile antidoto a quelle derive, ma anche di indicare un ipotetico appiglio (valore) al quale potersi aggrappare, nel generale naufragio (in Williams portato quasi sempre alle estreme conseguenze) di tutti gli ideali di cui si sentono – e probabilmente lo sono davvero – vittime a loro modo “innocenti”.
E non giova certo poi in questa circostanza la claustrofobica delimitazione dentro uno spazio tanto limitato e chiuso di quasi tutte le azioni, che porta spesso al violento scontro in un serrato “corpo a corpo” non solo verbale, degli interpreti (sembra per altro che Lumet abbia sudato davvero le proverbiali sette camicie per riuscire a contenerne e dirimere gli eccessi e le “incompatibilità caratteriali” che determinarono sul set reali contrapposizioni altrettanto feroci e aggressive).
Come tutto il teatro di Williams, l’azione è densissima di eventi, ma in questa che non può essere certo annoverata fra le sue più riuscite “tragedie”, risulta singolarmente molto debole la definizione dei caratteri dei personaggi, come sempre emblematici, ma portatori di una troppo marcata matrice letteraria che si rifà con eccessiva evidenza al “mito”, ma senza definire “esattamente” i paralleli con la contemporaneità di ciò che ci viene in effetti narrato, così che alla fine la cupa moralità del film risulta soprattutto racchiusa (e circoscritta) più che nei fatti, nella valenza fortemente simbolica dell’uccello senza zampe, che rimane vivo fin quando riesce a restare nel cielo, a volare in alto, lontano dalla terra fangosa e immonda, perchè quando la stanchezza lo costringe a planare al suolo, non ha alcuna speranza di salvezza: lì lo attende soltanto la morte.
Siamo, come è chiaro ed evidente, al limite estremo dell’anarchia individualista, che riaffermando la proprio purezza, finisce in pratica per negare anche se stessa, insieme al ferino mondo al quale si ribella, e il concetto è certamente molto intrigante. E’ semmai la sua esplicazione (cinematografica e letteraria) a non risultare del tutto convincente, anche perché rapportata a una storia certamente emblematica, ma non priva di improbabili fortissime “forzature” dinamiche, che narra la storia di Val Xavier vagabondo suonatore di chitarra che, perseguitato da una un po’ sciroccata vamp locale, con indosso la sua giacca fatta di pelle di serpente (destinata, per la sua particolare “unicità” a molteplici citazioni, come quella di Lynch in Cuore selvaggio) e strumento al seguito, si ferma in una cittadina del sud per trovare lavoro. Lì incontrerà una donna più anziana di lui oppressa da un marito malato e geloso, con la quale inizierà una relazione sentimentale destinata a deflagrare nella tragedia.
Passioni e drammi spinti alle più estreme conseguenze, dunque in questo film di attori “al servizio” della parola, o meglio della poesia un po’ malsana di un Williams non sempre perfettamente bilanciato e al massimo dell’ispirazione.
Forse un Lumet più maturo (qui era ancora alle prime armi, e seppure già reduce dall’importante prova offerta con La parola ai giurati, non aveva ancora del tutto affinato una sufficiente esperienza per dominare completamente una materia magmatica e un po’ putrescente di siffatta natura) sarebbe riuscito a raggiungere risultati complessivamente più convincenti anche sotto il versante della omogeneità della recitazione, poiché singolarmente è difficile immaginare chi sia più bravo fra Brando e la Magnani, solo che ognuno recita “a suo modo” e manca di conseguenza l’amalgama empatico che avrebbe reso stratosferico lo scontro, così che appunto proprio la Woodward, cavallo non certamente di razza inferiore, regge meglio di loro il confronto e l’improbo peso di una prestazione davvero molto faticosa e sofferta. Se ci si limita comunque ad osservare la messa in scena, possiamo trovare momenti che se isolati dal contesto, sono già sinonimo di pregevole perfezione, come quello bellissimo dell’iniziale interrogatorio, realizzato in perfetto stile Rashomoniano.
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