Regia di Yoshitaro Nomura vedi scheda film
Dopo Stakeout, Yoshitaro Nomura trae, da un altro romanzo di Seichô Matsumoto,un thriller dai risvolti drammatici e sentimentali. Ancora una volta, una caccia all’uomo passa attraverso un complesso universo femminile. Questo, però non è più formato da una protagonista e dal contorno di comprimarie, ma da un intero teatrino di maschere, in cui c’è chi cerca la verità e chi la nasconde, chi la conosce solo in parte, che ne subisce le perversioni e chi, invece, è in grado di deformarla a suo piacimento. Dietro la figura di Teiko Uhara, la sposina il cui marito sparisce nel nulla una settimana dopo le nozze, spuntano presto altre donne, in particolare Hisako e Sachiko, le cui personalità ed i cui ruoli all’interno della storia si definiranno in itinere. Sono le protagoniste di un intreccio nel quale, paradossalmente, si costruisce l’inganno al fine di risolvere un’ambiguità, ed intanto la trama sfugge di mano ai suoi autori, mutando la complicità in rivalità. La realtà sfaccettata di Rashômon sembra il lontano modello di questo giallo, in cui le diverse versioni dei fatti sono supposizioni, formulate dai vari personaggi coinvolti, che si sovrappongono, avvicinandosi alla soluzione per approssimazioni successive. Arrivare al cuore del problema è un’indagine che procede cautamente, scoprendo la crudezza della verità un passo alla volta, staccandola poco a poco da quella confortante apparenza, che, per la povera Teiko, coincideva con il sogno, appena iniziato, di una vita stabile e felice. L’incanto si dissolve in una spirale che, partendo da un fitto mistero, progressivamente soffoca l’illusione. Questa evoluzione, dalla normalità verso l’abisso di un tragico enigma, segue il percorso di un viaggio, dalla capitale Tokyo al grigiore della provincia giapponese, rappresentato dalla fredda desolazione della penisola di Noto. Quell’ambiente nudo e primitivo, battuto da un mare minaccioso ed oppresso dalla neve, sembra voler raffigurare la crudele morsa dell’angoscia di non sapere, ed il gelo del dolore che segue una rivelazione sconvolgente. La prospettiva assunta dalla narrazione è quella di Teiko, di cui, ogni tanto, arriviamo ad udire, sottoforma di brevi frasi sussurrate, i pensieri cruciali, quelli che segnano le penose tappe della sua lenta presa di coscienza. Kenichi, il giovane manager che, attraverso un matrimonio concertato in famiglia, le era stato assegnato come marito, e che avrebbe dovuto assicurarle una posizione sociale, è subito svanito come la più fugace delle chimere. Così lei, che si apprestava a formulare progetti per il futuro con l’uomo in cui aveva riposto ogni fiducia, si ritrova invece a dover scavare nel passato di un perfetto sconosciuto. La luce dura un solo istante, mentre il buio comincia subito ad allungare la sua ombra su una vicenda che improvvisamente diventa assurda, e la cui dinamica, in base a quanto risulta dalla spiegazione finale, è in effetti basata su equivoci e malefiche coincidenze. Zero Focus è un film in cui tutto si gioca sul silenzio, il sotterfugio e la menzogna, le pratiche a cui Teiko non è avvezza, e di fronte alle quali è del tutto disarmata. Gli eventi la costringeranno a toccare con mano quel lato oscuro della vita, segnandola profondamente, ma facendola anche maturare. La sua singolarità si traduce in una solitaria battaglia contro il mondo, aspra, però mai aggressiva, e sempre combattuta con mezzi leciti. Per gli altri, invece, la solitudine è una triste pozza di acqua stagnante, in cui crescono le piante infestanti della paura e della vergogna. E, per tutti, l’esistenza è un inestricabile groviglio, in cui si sommano gli imbrogli propri e quelli altrui, e dal quale cui non si esce mai più, oppure se ne esce cambiati.
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