Regia di Jacques Tati vedi scheda film
Il primo cortometraggio interamente scritto e diretto da Jacques Tati è una prova generale di Giorno di festa. È una storia ispirata alle comiche degli Anni Venti, in cui un atletico Tati riesce a fondere, nella figura di un postino pasticcione, l’arte del capitombolo con la precisione dell’acrobata e l’espressività del mimo. Il protagonista, che, dopo un accurato addestramento, si muove attraverso le campagne con la divisa, il borsone delle lettere ed una bicicletta, è veloce ed agile, ma la sua efficienza serve solo a farlo capitare nel posto giusto nell’unico momento sbagliato. Il suo tempismo alla rovescia è quello che riesce ad inserirsi negli ingranaggi della realtà scardinandone la coerenza, e facendo scattare la molla del paradosso. Quel mondo che, per magia, si trasforma in una pista da circo disseminata di trabocchetti, è un esplicito tributo al cinema di Charlie Chaplin e Buster Keaton, che Tati omaggia con la sua prestanza fisica (in gioventù era stato un giocatore di rugby) e le sue doti di cabarettista (agli inizi degli Anni Trenta, il suo primo spettacolo teatrale, intitolato Sport muto, gli aveva procurato una grande fama come imitatore). La comicità ad orologeria di questo film è straordinariamente rigorosa, però mai forzata, ed anzi è tale da assicurare allo sviluppo della storia – che è scandita quasi per intero dal ritmo dei pedali – la disarmante fluidità di una danza, elegante benché strampalata, virtuosa benché bonacciona. La scuola dei portalettere è un bozzetto caricaturale, in cui ad essere oggetto di ironia è la pretesa, da parte dei comuni mortali, di poter sfidare gli imperscrutabili meccanismi del tempo e del destino, ai quali, nell’età contemporanea, si sono aggiunti, come temibili complici, i diabolici artifici della tecnologia. Nel velivolo che, secondo una tabella di marcia inderogabile, deve decollare alle 10.30 per consegnare la posta aerea – imponendo al protagonista un autentico tour de force – non è difficile scorgere un preludio a quella critica della civiltà automatizzata, motorizzata, geometrizzata che sarà al centro di Play Time (1967) e Mr. Hulot nel traffico (1971). Il progresso, che in un paio di decenni assumerà contorni disumani, comincia ad essere una trappola in un piccolo villaggio francese del primo dopoguerra.
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