Regia di Pablo Larrain vedi scheda film
Una parola breve e difficile, da dire e da sentire. Per farla digerire, per farla suonare gradevole e giusta, bisogna costruirci intorno una storia. Meglio una favola, o magari una barzelletta che faccia ridere. Affinché parli a tutti, è opportuno usare il linguaggio mediatico, della musica popolare, dei videoclip, delle réclame che inscenano, con orecchiabile allegria, irraggiungibili orizzonti di felicità. Forse è vero che, nel Cile del 1988 – in occasione del plebiscito contro Pinochet - la televisione ha avuto la prodigiosa capacità di trascinare un’intera nazione, convincendola ad opporsi alla dittatura e voltare pagina. Possiamo credere, che, per una volta, il tanto deprecato potere incantatore dei jingle e gli slogan abbia prodotto un effetto benefico sulla coscienza collettiva, spingendola a mettere in atto una colossale rivoluzione, tanto coraggiosa quanto pacifica. Il romanzo di Antonio Skármeta, portato sul grande schermo da Pablo Larraín, esercita su di noi la stessa magica opera di persuasione, a base di frasi studiate ed immagini scelte, per convincerci che il bombardamento pubblicitario può essere espressione di un progetto artistico, ricco di contenuti politici ed informativi, efficace perché autentico, accattivante perché geniale. La ragione e la verità diventano forti quando si uniscono per trasformarsi in letteratura, visiva o verbale, e riescono a farsi ascoltare se capiscono cosa sia bello ed importante per la gente. Il successo di pubblico nasce da un condizionamento che rifiuta l’arroganza, e dunque si presenta con un atteggiamento amico e non violento, nel gesto di porgere una mano ai più comuni desideri, e di confortare ognuno nelle sue speranze più profonde. Si può persino immaginare che, a compiere il miracolo, sia stato un freelance sui trent’anni, realizzatore di spot a carattere commerciale, ideologicamente non schierato, ma, per età e per natura, insofferente nei confronti della repressione ed innamorato della libertà. L’eroe di questo film si chiama René Saavreda, ed ha il volto dell’attore messicano Gael García Bernal: un semidivo in blue jeans, dal fascino ancora adolescenziale, che richiama alla mente la tragica fragilità di certi acerbi poeti ottocenteschi, con un animo impetuoso nascosto dentro un corpo minuto e dall’aspetto innocente. L’operazione sarebbe smaccatamente demagogica, se la sceneggiatura indugiasse appena un po’ di più su questo tenero ammiccamento agli stereotipi romantici, ormai fatti propri da un certo cinema giovanilistico. Ma anche la concessione ai cliché è accuratamente dosata, e perfettamente funzionale allo scopo: immergerci nella fucina – dall’indole in parte furbesca, in parte intellettuale - da cui scaturiscono i messaggi preconfezionati che mirano a plasmare le nostre menti, non di noi come individui, ma di noi come membri di una massa sterminata, che comprende, al suo interno, ragazzi e vecchie signore. Assistiamo alla genesi di queste formule alchemiche, allo scontro fra stregoni e folletti che si svolge dietro le quinte delle opposte campagne elettorali, e, nello stesso tempo, quei mezzi vengono utilizzati nei nostri confronti, per far sì che la vicenda narrata ci colpisca con la forza di ciò che ci piace, ed è in grado di stupirci, mostrandoci la realtà come una dimensione più varia, movimentata ed interessante di quanto non sembri nella vita di tutti i giorni. La miscela è opportunamente infarcita degli aromi pregnanti del reality e del talk show, i cui eccessi sono sapientemente smussati dal ricorso al tono biografico-documentaristico. È così che No riesce ad essere una chiamata generale al pensiero alternativo, alla fede in un sogno impossibile che, col semplice meccanismo di un televoto, anziché dispensare la futile suggestione di una vincita al gioco, può davvero cambiare il futuro di un popolo.
Questo film ha rappresentato il Cile agli Academy Awards 2013.
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